Ameluk
Al suo esordio dietro la macchina da presa, l'attore pugliese, Mimmo Mancini, mette in scena la surreale e provocatoria via crucis di un Cristo di finzione, ma realmente mussulmano ...
Mimmo Mancini, attore pugliese, memorabile sul grande schermo per la sua interpretazione di “Carrarmato,” nel cult La capa gira (1999) di Alessandro Piva, esordisce dietro la macchina da presa con la commedia Ameluk. Una “commedia comica” (se le si riconosce da un lato l’aspirazione verso la “commedia all’ italiana” nel voler riflettere i cambiamenti del costume, dall’altro il ricorso alla farsa e al corpo comico - su tutti le performances dello stesso Mancini, e di Dante Marmone - quale strumento privilegiato di coinvolgimento spettatoriale) che va ad inserirsi nel filone di una nuova comicità meridionalista d’autore, al fianco per esempio di Una piccola impresa meridionale di Papaleo, piuttosto che di mero stampo commerciale, quali le operazioni di remake Nord Vs Sud e men che meno il parossismo Zaloniano.
Una commedia che nell’articolarsi sulla questione quanto mai urgente e umanamente complessa dell’immigrazione e dell’integrazione multiculturale, riesce non solo a mantenere pulizia nella resa goliardica, ma addirittura non nasconde un più ampio respiro esistenziale, scegliendo di far convergere la discriminazione razziale con la figurazione cristologica. La parodia citazionista a latere del film, menziona il colossal di Mel Gibsson, The Passion of the Christ , lasciando tuttavia all’eterogeneità del grande pubblico la possibilità di recuperare alla memoria un piccolo gioiello del cinema italiano, quale è La Passione (2010) del compianto regista Carlo Mazzacurati, film che con Ameluk ha in comune, almeno l’intenzione, di demistificare l’attualità. In entrambi i casi, le storie sono ambientate e sviluppate all’interno di microcosmi paesani, ove l’allestimento della via crucis del Venerdì Santo costituisce per le forze politiche locali ostentazione e ricatto di propaganda, e dove la “sacralità umana”, già ampiamente soffocata dal meccanicismo del rituale e dall’ambizione profana, resta sempre il bersaglio privilegiato delle più disparate invettive e strumentalizzazioni. Ancora, in entrambi i casi, proprio a causa di un’ eccessiva immedesimazione nel ruolo di Cristo, sfoggiato dai megalomani interpreti designati alla parte, la trama conduce, letteralmente dai margini della comunità sociale al centro della scena, teatrale e pubblica, un protagonista che possa, oggi come oggi, bene squarciare l’ipocrisia e l’amoralità, che ammantano il sentire comune, specialmente quando innestati su un’atavica grettezza intellettuale; in questo caso: un Cristo di finzione, realmente mussulmano.
Ameluk , come recita lo slogan di lancio, racconta una sorta di fiaba moderna “che potrebbe, tuttavia, essere vera!”, in quanto ad essere realistica non è tanto la mostruosità etica ed estetica dei personaggi – attanti, funzionali al risum movere (il politicante arrogante e villano, lo stravagante militante comunista, il carabiniere inetto, la pettegola maldicente, ecc…) che potrebbero far gridare all’abuso dello stereotipo, in particolare per la gestualità esasperata, quanto l’ auto-confessione di un sostrato antropologico, che ancora nella provincia e ancora più nella frazione di provincia, persevera inesorabilmente a fomentare chiusura, isolamento e utilitarismo, nella convinzione di bastare a se stessi, isola autarchica, indisponente alle metamorfosi del tempo (esilarante la tracotanza di pensare che le news pilotate dal magazine locale possano frastornare l’Ansa e che a separare il piccolo borgo dall’universo mediatico ci sia di mezzo solo il vicino Comune di appartenenza). Mariotto, frazione rurale del Comune di Bitonto, nella diegesi del film, porta già inscritti da un lato i segni della multiculturalità socio-economica - il venditore di kebab in piazza - dall’altro dell’integrazione comunitaria, in quanto il protagonista, Jusuf ( Mehdi Mahdloo Torkaman), è Giordano di origine, ma sposato con una italiana, amico e collega fidato di molti suoi compaesani, soprattutto padroneggia un italiano perfetto… ed è proprio qui che, come si suol dire, casca l’asino! Infatti non è nei pregiudizi e nei principi urlati ai quattro venti che si disputa la battaglia del riconoscimento e del rispetto di una identità ibrida, ma in quella zona grigia secolare e quieta che è la lingua stessa, che è corrispondenza geo-storica, che è dissimulazione discriminante. Mancini lo sa bene, tanto da titolare il film con una storpiatura lessicale, significante già di per sé l’espropriazione dell’alterità etnica, che passa attraverso la corruzione linguistica. L’uso di nomi propri come profili semantici e l’impiego dominante del dialetto sono fondamentali tanto ad attivare il meccanismo comico, quanto ad esplicitare l’atto perfomativo razziale. Emblematico è che Jusuf, ancor prima di venire marchiato e deriso da tutti come Ameluk (appellativo che deriverebbe presumibilmente da “Mammelucco”, ovvero genericamente i mercenari egiziani sotto l’impero Ottomano) perché tanto, ai fini dello spregio “arabo, giordano, marocchino o turco so’ tutti uguali” , insomma prima dello sprezzo pubblico, tra le mura domestiche Jusuf è chiamato con familiarità “Giuseppe” dal nonno acquisito, ad indicare questa volta senza cattiveria, come l’accoglienza, non riesca a prescindere dal primordiale rifiuto del diverso da sé. E lo stesso valga per il fondamentalismo da tavola, Jusuf non beve vino e non mangia salsiccia, pertanto l’oltraggio è già servito, e poi risolto, prima che in piazza, in chiesa, in Tv e ancora altrove, tra quei bisogni viscerali che nell’immaginario comune costituiscono intramontabilmente la meridionalità e che ancora nel XXI sec. il grande schermo stenta a trattenere, nonostante le buone intenzioni.