American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace
Il secondo capitolo della serie antologica racconta l'omofobia e l'ossessione per la fama, tracciando un impietoso filo conduttore con il presente
Alla seconda stagione, è ormai chiaro che il filo conduttore di American Crime Story – come nell’altra serie firmata da Ryan Murphy, American Horror Story – non è tanto il crimine quanto il teatro in cui si svolge, gli Stati Uniti e in particolare la pop culture americana. I delitti che Murphy racconta sono entrati a far parte della memoria collettiva, si sono trasformati da semplici casi di cronaca in fenomeni di costume, catalizzatori di tendenze presenti nel proprio contemporaneo. Se il processo a O.J. Simpson, nella scorsa stagione, raccontava dell’influenza sulla giustizia da parte di un clima politico incendiario e della nascita di un nuovo concetto di celebrità e privacy, The Assassination of Gianni Versace è una storia sull’essere gay in America negli anni della confusione post-AIDS/pre Will & Grace, in cui la tolleranza stava nascendo ma il pregiudizio era ancora pervasivo, sugli effetti psicologici dell’omofobia interiorizzata e sugli orrendi compromessi spirituali e le bugie che richiedeva essere un gay non dichiarato.
Per raccontare questa storia, Murphy parte dall’omicidio di Gianni Versace, genio della moda e figura fondamentale dello star system degli anni ‘90, ma la miniserie è solo occasionalmente incentrata sullo stilista. Mette invece al centro della narrazione il suo assassino, Andrew Cunanan, ventenne omosessuale metà italoamericano metà filippino, che nel 1997 lasciò una scia di sangue attraverso gli USA con una serie di delitti che iniziarono con l’amico Jeffrey Trail, l’ex fidanzato David Madson e proseguirono con l’anziano amante Lee Miglin, la vittima casuale William Reese e infine a Miami culminarono con la sparatoria contro Versace. La narrazione parte dalla fine, ovvero dalla morte di Gianni sui gradini della sua casa di South Beach, con una scena drammatica che evoca Il Padrino ma anche la Cavalleria Rusticana (coerentemente con uno show che fa dell’opera e delle sue messe in scena sontuose e sopra le righe un continuo riferimento visivo e tematico, specie nelle scene che coinvolgono la famiglia Versace), per andare a ritroso raccontando le origini della storia, non solo della catena di delitti ma anche dello stesso Cunanan.
Una sorta di origin story da villain del fumetto, ma raccontata all’inverso, con l’esplicito intento di ottenere il paradosso, ovvero permetterci di empatizzare con uno psicopatico: attraverso il percorso che genererà la sua caduta verso il male, Cunanan ci viene mostrato in una spirale ascendente anziché discendente, diretta verso la normalità anziché verso la follia, riservando soltanto all’ultimo episodio il ruolo di chiusura del caso di cronaca. Andrew Cunanan è però a questo punto agli occhi dello spettatore non soltanto un criminale, non soltanto un bugiardo patologico e privo di empatia, ma anche (grazie all’interpretazione del talentuosissimo Darren Criss) un bambino abusato, un adolescente vittima dei pregiudizi, un giovane adulto solo e alla ricerca d’amore per guarire le proprie profonde ferite. Arrivati al tragico epilogo, The Assassination of Gianni Versace ha ottenuto il proprio scopo, che è quello di farci guardare alla storia non soltanto attraverso gli occhi della vittima ma anche di quelli dell’assassino, vittima anche lui di uno stile di vita almeno in parte imposto dalle condizioni di una società che non mette più gli omosessuali in carcere ma li condanna all’invisibilità e alla segretezza.
Dato che essere gay voleva dire (allora, e forse in parte anche ora) dover essere tante persone diverse in ambienti diversi, dalla famiglia al lavoro, per creare un’illusione di normalità, non stupisce come l’evidente psicopatia di Cunanan possa essere passata per tanto tempo inosservata o perlomeno sottovalutata, portandolo comunque ad instaurare un certo numero di amicizie e relazioni nonostante le sue continue e plateali bugie, unite alla sua ossessione per la ricchezza e la fama.
Se partiamo dal presupposto, che la serie ci racconta in modo estremamente efficace, che tutti i giovani gay tendono a sviluppare una sorta di identità segreta prima di dichiararsi (e tanti omosessuali in passato sono stati costretti a mantenerla per la loro intera esistenza), allora diventa piuttosto logico supporre che le ossessioni di Cunanan potessero essere liquidate come eccentricità di un ragazzo giovane, intelligente, dall’aspetto e dalle maniere impeccabili.
L’ossessione di Andrew Cunanan verso la ricchezza, creata dal padre e nutrita sia dall’edonismo degli anni ’80 che dalla propensione della comunità gay dell’epoca a caricare il gusto e l’estetica di un enorme valore simbolico, è una devianza che Murphy mette esplicitamente in relazione con la contemporaneità, come già accaduto per la storia di O.J. Simpson. The Assassination of Gianni Versace racconta una storia vecchia di vent’anni che non potrebbe apparire più attuale nell’epoca del selfie e dei social network in cui la celebrità e la ricchezza sembrano essere sempre più alla portata di un click per chiunque e in cui il talento e la competenza non sono più condizione necessaria per avere successo in qualsiasi campo, se si hanno molto coraggio e pochi scrupoli nel vendersi al miglior offerente.
La confusione tra amore e ammirazione da parte degli altri, tra vita reale e vita virtuale costituisce quindi, in The Assassination of Gianni Versace, un fil rouge impietoso tra la tragica storia di Cunanan e l’oggi che ben conosciamo. Ancora una volta Murphy riesce, attraverso un delitto ma soprattutto attraverso la sua rilettura a posteriori, a raccontare l’America di oggi in maniera puntuale quanto un’analisi sociologica, dicendoci moltissimo di noi stessi attraverso i prodotti più borderline che la nostra società ha prodotto.