Quando tutte le traiettorie sembrano tracciate, Amir Naderi, il corridore, la furia apolide, il paladino del cinema che fa crollare le montagne, realizza un film piccolo, imprevisto, squisitamente sgangherato. Un film su Hollywood - dice lui - e aggiunge con sguardo febbrile e incantato “it’s a love story”. E alla fine ce la fa, Naderi, a realizzare la sua love story. Che è anzitutto una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema, passione di una vita, inseguita, adorata, pensata e costantemente esplorata. Chi ha visto Amir anche una sola volta lo sa bene, perché somiglia tantissimo ai film che fa: un vulcano in continua eruzione, un fiume in piena che si riversa – con toccante generosità - in questo appassionante Magic Lantern al ritmo di una ronde di ophulsiana memoria. Il film sembra davvero il lavoro di un giovane e vitalissimo regista, l’opera prima di chi è cresciuto a pane e Minnelli, allestita con la passione di un eterno cinefilo.
L’immagine è calda e rossastra, non per banale adesione agli standard visivi post-Hugo Cabret, ma per creazione di immaginari interiori. Un film di amori cinefili? Certo, ma non solo. Il cinema è la memoria di Naderi, ma anche il presente e l’avvenire. Proprio per questo i colori si fanno talmente saturi da divenire astratti: tutto potrebbe sciogliersi da un momento all’altro e restituire solo bagliori di luce in movimento, macchie, resti di film. Mettere in scena l’amore significa per Naderi rappresentare un labirinto di affetti, il flusso vivente che attraversa tutto il cinema che ci ha abitato. La lanterna magica, ovvio, è il cinema: la vecchia sala che proietta il suo film di chiusura, il suo ultimo spettacolo. I posti ormai vuoti, l’odore della pellicola, il buio, il silenzio…e la fede nelle immagini. Eppure il cinema non muore qui. Si reincarna, trova nuove forme, cambia pelle. La sala chiude, ma il protagonista viene richiamato – quasi invocato – dalla suoneria ovattata del cellulare, nuova lanterna magica, nuova riconfigurazione della visione. Il cellulare qui è sia mezzo di visione (il protagonista scopre l’identità della donna amata attraverso videoselfie, foto, immagini sintetiche) sia di comunicazione (che non porta mai da nessuna parte se non alla propria interiorità) sia, infine, di trasporto (varco ultradimensionale, portale dell'immaginario contemporaneo).
All’inizio sembra di assistere alla versione naderiana di Sherlock Jr. di Keaton, poi, lentamente, si scivola nei territori hellmaniani del road to nowhere. Il proiezionista entra nel film – proprio come Keaton – e abita tra i suoi fantasmi. Si innamora di una ragazza, candida e bellissima, angelo fantasmatico del cinema che fu. Poi la perde: l’amore vive nella scomparsa, nella ricerca, nell’indagine senza fine. Lei lascia una traccia di sé, il cellulare. L’amante allora la insegue tra le immagini del mondo, tra le strade gravide della città degli angeli, tra i volti che si susseguono come proiezioni da un'altra terra. Il cinema, la sala, la vita: il cortocircuito inizia a prendere forma, il cellulare unisce tempi e dimensioni diverse. Il cinema è reale, ora più che mai, o forse è quello che resta della realtà.
Tutta qui la favola d’amore, fragile ed esilissima, come le cose che rimangono. Si ritorna alla traccia, all'anima, alla base di qualsiasi narrazione: boy meets girl, per l’appunto, che diviene qui un ragazzo cerca una ragazza. Questo ragazzo alimenta il proprio amore nelle mancanze e nei vuoti. Si innamora dell’idea ancora prima che del corpo, dell'immagine ancora prima che della realtà. Imparare ad amare significa dar vita ai fantasmi, credere in loro, preparandosi a un salto nel vuoto. Ricercare il proprio amore negli imperi della mente e nelle terre di nessuno, nei tagli di montaggio, negli istanti tra le immagini. E quando l’intero mondo sparisce, rimangono lui e lei, nessun altro. Lei corre lungo i corridoi, vestita di bianco, come un angelo o uno spettro, fra polvere e pellicole. In questa visione c’è quello che resta del cinema, in attesa di nuove terre dove poter dimorare. Infine, lui e lei si incontrano su una spiaggia deserta, in un’escatologia immaginaria che sembra guardare perfino a Vital di Tsukamoto. La vita continua, oltre la morte – e anche il cinema vince il tempo, sopravvive e ritorna, come atto di resistenza, come ultimo lascito di eterno amore.