Doppio amore
Non si cerchi trama e plausibilità nel thriller erotico di Ozon: c’è solo l’apice del suo cinema, ed è tutto dentro l’immagine.
All’inizio de Doppio amore, diciassettesimo film di François Ozon, c’è una coppia che si forma all’insegna di un divario: Chloé (Marine Vacth) si rivolge a uno psichiatra, il dottor Paul Meyer (Jérémie Renier), a causa del dolore al ventre che non la abbandona mai, malgrado gli esami regolari. La donna si unisce all’uomo, ed ecco il gap: se in una coppia tradizionale i due poli cominciano reciprocamente a conoscersi e amarsi, qui lo scenario di partenza spacca la convenzione. Lui sa tutto di lei, è un terapista che l’ha già analizzata, lei non sa nulla di lui. Lo psichiatra si avvicina alla giovane in barba al codice professionale. È il primo inganno: pensare che Paul sia l’elemento in vantaggio nella coppia, colui che nasconde segreti, come nella spiegazione di aver cambiato cognome (prima si chiamava Delord) che sembra troppo facile per essere vera. Appunto: pensare, o meglio farci pensare. Perché la menzogna è ancora la sostanza del racconto di Ozon e di tutto il suo cinema.
Chloé inizia a sospettare che Paul abbia un fratello gemello, Louis Delord, anch’esso di professione psichiatra. Lo vede fugacemente dal bus, o crede di vedere. Di più: comincia a frequentarlo e in breve ne diventa amante. Tradisce il suo uomo col gemello, identico a lui, separato solo da palesi e grossolani dettagli: niente occhiali, barba colta, pettinatura diversa. Ma, soprattutto, separato dall’incarnazione di ciò che il fratello non possiede: Paul è un amante quieto e coniugale, Louis brutale e selvaggio. Antipodi con lo stesso volto. Ozon passeggia per il romanzo Lives of the Twins di Joyce Carol Oates, somma scrittrice americana che adatta (molto) liberamente, e dispone sul tavolo i suoi riferimenti evidenti: Brian De Palma, ovviamente, e in particolare il capolavoro Vestito per uccidere (la sequenza di Angie Dickinson al Metropolitan in quel film è implicitamente - e non solo - contenuta nel lavoro di Chloé, custode al museo), ma in generale tutta la riscrittura e decostruzione del congegno thriller nel cineasta di Newark, da Doppia personalità fino a Femme fatale, che richiama questo nella scena di Rebecca Romijn-Stamos nella vasca da bagno dove i livelli si mescolano e si affaccia il film mentale generato dalla testa di una donna (e la protagonista è una modella come Marine Vacth).
Seguendo il filo, volendo azzardare, si potrebbe dire che Ozon gira il suo Mulholland Drive, sostituendo l’ipotesi del sogno (il noto movimento della cinepresa che plana sul cuscino nel film di Lynch) a quella della proiezione mentale. D’altronde il cineasta ha sempre frequentato la confusione tra realtà e immaginazione, per esempio in Swimming Pool: dove finisce la “realtà” (ovvero il racconto realistico) e scatta la miccia della fantasia prodotta dai protagonisti è il confine che ci chiama ancora a indagare. Ozon non dimentica l’Antonioni di Blow Up, nella sfocatura tra ciò che si vede e crede di vedere, e dopo Giovane e bella torna anche a Buñuel, ai sogni erotici che rendono il mentale tangibile: l’incipit di Doppio amore, con l’inquadratura nella vagina che diventa una palpebra e quindi un occhio, sembra una deformazione dell’ascella che diviene riccio marino in Un chien andalou, una riscrittura volutamente grossolana del montaggio surrealista. Siamo nella dichiarazione di intenti: il raccordo vagina/occhio è una trasfigurazione del collegamento corpo/mente, ci dice che lì dobbiamo guardare. Sfacciatamente.
Il regista vede anche il cinema d’oggi, coltiva l’innovazione estetica figlia del videoclip degli anni Dieci, quello che ferma la narrazione e fa avanzare il racconto attraverso la parentesi rarefatta, un’installazione dentro il film, esattamente come fa Jonathan Glazer in Under the Skin: in Ozon accade con la sequenza dei piccoli gemelli che si azzuffano tra loro, per poi sfociare nel gesto dei bambini uguali che baciano maliziosamente la donna adulta, Chloé. Nell’agnizione conclusiva si sono poi rinvenute tracce di Cronenberg, che si limitano - per chi scrive - a un livello più formale che sostanziale. Ma attenzione: Ozon è autore cinefilo, non derivativo, usa i suoi riferimenti - chiari o meno - e li dà per scontati, quando apre il racconto li ha già interiorizzati e li piega esclusivamente al suo discorso unico e peculiare (a titolo di esempio: le quattro mani che toccano il corpo nudo di Chloé, come per la Rampling di Sotto la sabbia, scena ozoniana e basta).
Chloé frequenta l’amante e il doppio, indaga, resta invischiata, teme un complotto. Incontra una donna già madre della vittima precedente (una magnifica Jacqueline Bisset). Fino a scoprire, all’ultimo, che è tutto nella testa. La proiezione della giovane malata costruire un gemello uguale e opposto all’amante, viene disegnata basandosi sugli elementi della realtà rivisti in chiave inconscia: così la spilla del gatto che Louis regala a Chloé è in realtà il gioiello sulla giacca della madre, come implicitamente suggerito dal successivo dono di Paul: «È una spilla a forma di gatto?», «No, sarebbe di cattivo gusto»*. Ed ecco un punto: il cattivo gusto. Perché ciò che immaginiamo, il nostro film mentale è spesso rozzo e grossolano, senza contorni come un sogno, e allora inevitabilmente lo è anche l’immaginazione di Chloé, donna normale e di media cultura che produce una storia media nelle sue possibilità. Come chiamare altrimenti la vicenda del gemello predatore identico al marito? Approssimazione, grana grossa, mancanza del dettaglio e quindi rielaborazione di quelli della vita: come ogni film che sta nella testa. Per questo Ozon gonfia, esagera, vuole l’eccesso: la moltiplicazione di doppi e riflessi è potenzialmente infinita, lo dimostra la ripresa di Chloé immortalata in una successione di specchi. Perfino un gatto può vivere più volte, riproporsi continuamente per replicare una bislacca teoria gemellare.
Ozon chiama lo spettatore al gioco: un gioco continuo e indefesso, che affida a chi guarda un ruolo interattivo, districarsi nel labirinto di immagini, provare a ricomporre il puzzle. Egli non suggerisce la soluzione, ce la mette proprio davanti agli occhi: è sempre dentro l’inquadratura. Nella scena sontuosa del menage a quattro, eseguito oniricamente tra Chloé e i due gemelli, la ragazza si deforma in un corpo a due teste, mostrando così la verità: se lo sdoppiamento dei gemelli va letto in chiave fantasmatica, ovvero è solo immaginato dalla giovane, quello di Chloé si rivela decisivo indizio visivo, perché la donna non si sdoppia in due gemelli bensì si offre come corpo unico a due teste: ci dice chiaramente che lo sdoppiamento è tutto nella mente. In senso altrettanto rivelatorio si leggano le riprese di Ozon nella galleria d’arte, in particolare quella in cui troviamo Chloé seduta in mezzo a due opere speculari (ancora) e l’inquadratura “entra” nella sua testa, mostrando le forme che si sciolgono in essa in un disegno astratto: ancora una volta, è chiaro, siamo avvisati che occorre guardare alla psiche della protagonista.
Amante e doppio sono i cardini concettuali protagonisti del film.
Amante è participio presente del verbo amare, che contiene sempre il mistero del sesso, e sono proprio gli abissi del desiderio che Ozon sonda, ponendo l’ipotesi di avere un amante tranquillo e volere il suo rovesciamento. Le spire della perversione, visto che abitano la mente, non hanno limiti: prevedono l’immaginazione di un cunnilingus vampiresco intriso di sangue e la possibilità di concretizzare una proiezione, di applicare al partner il trattamento fetish previsto dall’amante. E la stessa perversione non ha fine: dopo lo scioglimento il desiderio resta insondabile, ambiguo e sfuggente, insomma “aperto” come attesta la postilla finale: si può scrivere la fine di una storia ma non di una fantasia.
Il doppio, invece, conferma che per Ozon la bugia è il luogo della coppia e la casa del suo cinema. Il regista riflette perennemente sulla capacità di mentire della messinscena ma non è un vezzo teorico, al contrario una pratica concreta, che esalta la rappresentazione mentre vi si aggira ironicamente dentro: basti pensare alla camminata di Marine Vacth che sfila sul set come la modella che è, rivelando così la sua essenza di mannequin, pedina nelle mani del demiurgo. Perché Doppio amore è un thriller erotico, e quindi - come detto - un gioco: lo pensa l’autore e lo ribadisce il battage pubblicitario, con la recente presentazione a Madrid introdotta da due modelli nudi in vetrina a ricreare la scena simbolo del film.
Ma dov’è la credibilità dell’intreccio? Ozon ottiene la stessa critica che otteneva De Palma negli anni Ottanta. La risposta è: da nessuna parte. E soprattutto, non è il punto. Il plot irrilevante, il totale disinteresse per il fatto in sé, la chiamata allo spettatore, l’invenzione in ogni fotogramma, il senso riposto sempre nella costruzione dell’inquadratura: l’autore ci porge un altro enigma, dopo Nella casa e Frantz, da sciogliere solo attraverso il cinema. È il classico film-equivoco: ignorato in concorso al Festival di Cannes, Doppio amore è Ozon all’apice impudico e senza filtri, per questo puro, contro la trama e in favore dell’immagine: guardandolo non si capirà come si scrive una storia, ma si può intuire - forse - cosa significa fare cinema.
*Da segnalare come riferimento “bonus”, troppo esatto per essere casuale, che il dettaglio della spilla a forma di gatto è molto simile al fermaglio rivelatore nel finale di Chloe di Atom Egoyan: un altro cineasta del doppio che moltiplica la verità e la rivela mediante l’immagine. E i nomi delle loro protagoniste sono divise solo da un accento acuto.