Il genere horror ha sempre avuto una particolare affiliazione con la tecnologia, a partire da un racconto gotico come Frankenstein fino al cinema, dalla tecnofobia che caratterizza film come Videodrome e Tetsuo, ai futuri distopici in cui macchine intelligenti prendono il controllo dell’individuo o in cui virus e spiriti si diffondono tramite il web come in Kairo, specchio del connective turn della società contemporanea. Le nuove tecnologie inoltre hanno anche saputo riconfigurare stilisticamente ed esteticamente il cinema horror, dal found footage di The Blair Witch Project alle macchine digitali che catturano e rappresentato figure fantasmatiche, demoniache e oscure presenze come in Paranormal Activity. Ultima frontiera e innovazione del social media horror risulta essere il filone definito dello screencast cinema, dove per screencast si intende la registrazione diretta del segnale video emesso su uno schermo. L’inquadratura combacia con il monitor dell’utente.
Film come The Den di Zachary Donohue, The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger (il segmento diretto da Joe Swanberg per l’antologia V/H/S), Open Windows di Nachi Vigalondo, Unfriended di Levan Gabriadze (così come il recente seguito Unfriended: Dark Web) si servono della narrazione attraverso screencast. Tuttavia, oltre ad essere una tecnica di racconto che senza ombra di dubbio consiste in una riflessione sui modelli e le pratiche di interazione con i social media, da Facebook a Instagram da Snapchat a Skype, lo screencast cinema può aprire nuove strade, dato lo spettro limitato e fisso dello sguardo e dell’occhio della macchina da presa, di interrelazione dialettica tra campo e fuori campo. I jumpscares di un film come Unfriended sono prevalentemente realizzati attraverso il celamento, o l’improvviso svelamento come nel finale del film, di un fuori campo attivo. Lo spettatore si domanda che cosa stia succedendo oltre lo schermo del laptop specialmente in risposta alle reazioni dei personaggi che vengono visti attraverso l’occhio della webcam.
Searching, opera prima del regista americano di origine indiana Aneesh Chaganty presentato in anteprima al Sundance Film Festival, adotta questa estetica e lo screencast come modello narrativo, eliminando, ad ogni modo, elementi propriamente horror o paranormali per mettere in scena una detection di stampo classico.
David Kim (John Cho) è un padre amorevole, forse fin troppo apprensivo verso la figlia Margot, specialmente da quando ha perso la moglie a seguito di un cancro, e sente di aver assunto maggiori responsabilità nei confronti della ragazza. All’improvviso Margot sembra scomparire nel nulla, non risponde ai messaggi e alle video chiamate del padre. Inizia così la ricerca dell’uomo che cercherà indizi andando ad esaminare le tracce lasciate dalla figlia sul proprio computer, una memoria esterna digitale fatta di contatti, foto, video e cronologia web. Il film inoltre mostra come l’utente, in maniera intenzionale e non, lasci elementi e informazioni proprie che possono essere manipolate e strumentalizzate. Enigmi disseminati tra le cartelle del pc. Ogni folder sul desktop potrebbe contenere una potenziale rilevazione o colpo di scena dal momento che il padre scopre di non conoscere affatto la vita privata della figlia. Sullo schermo del computer si alternano video dirette in streaming, video chiamate, immagini dei social media. Personaggi e luoghi non sono collegati attraverso i tagli del montaggio in maniera lineare e consequenziale ma coabitano l’inquadratura o lo schermo.
Attraverso lo spatial montage, termine proposto da Lev Manovich facendo riferimento anche al suo stesso lavoro Little Movies, ogni immagine, differente per dimensione e proporzione, non è giustapposta con quella che la precede o la segue ma sono tutte presenti sullo schermo. Sarà lo spettatore a decidere su quale elemento concentrare la propria attenzione nel momento in cui all’interno dell’inquadratura sono presenti immagini poste sullo stesso piano, video di youtube, conversazioni facebook e altro ancora. Con una nuova forma di montaggio proibito, che gestisce il tempo attraverso lo spazio del monitor e ridistribuisce più immagini sullo schermo, Searching, così come gli altri esempi citati di screencast cinema, riflette in maniera esplicita sulle differenti modalità di fruizione del testo filmico nell’era postmediale. Del resto il fatto che lo schermo della sala cinematografica possa corrispondere a quella di un monitor del computer è un chiaro riferimento al regime scopico con cui ha maggior familiarità lo spettatore/ utente contemporaneo.