Angels Wear White
Nel suo secondo film, Vivian Qu ingabbia i suoi personaggi femminili in un’opera fin troppo schematica e senza alcuna via d’uscita.
In una cittadina del litorale di fronte al Mar Cinese Meridionale, due studentesse dodicenni vengono (probabilmente) abusate sessualmente, nella stanza di un motel, da un uomo di mezza età. Mia, un’adolescente che lavora nella struttura, è l’unica testimone dell’accaduto. La ragazza, infatti, ha ripreso con il suo smartphone le immagini delle videocamere di sorveglianza, che mostrano l’uomo che entra nella stanza delle due bambine per abusare di loro. Mia avrebbe la prova per incastrate l’uomo ma, per paura di finire coinvolta in un’indagine che avrebbe di conseguenza svelato il suo stato di minorenne fuggita di casa e finita in clandestinità, è in dubbio se avvertire la polizia dell’esistenza di una prova schiacciante contro l’uomo. Nel frattempo, le due bambine – anche se il film si concentra poi soprattutto su una delle due, Wen – si ritrovano costrette a dover affrontare l’accaduto in privato, assieme alle rispettive famiglie e con le autorità che iniziano a indagare sul caso.
Angels Wear White, secondo film di Vivian Qu dopo il sorprendente esordio di Trap Street, già presentato a Venezia in Orizzonti, assume inizialmente le forme di un appassionante thriller, volto ad esplorare (o almeno così sembra, per il momento) il dramma etico che due personaggi, di età diversa, sono costrette ad affrontare con la natura umana e con la propria identità femminile. Fin qui, verrebbe da dire, tutto bene. Se non fosse che la regista cinese decide di collocare i suoi personaggi all’interno di un mondo – popolato da maschi eterosessuali e borghesi che abusano di ragazze povere e indifese – che non dà loro scampo, non lasciando alcuna decisione nelle loro mani. Le due ragazze, abbandonate del tutto a loro stesse dalle persone che le circondano (non a caso, soprattutto uomini), si ritrovano imprigionate in una situazione senza via d’uscita, in cui possono contare unicamente sulla propria soggettività femminile. Partendo dal tentativo di risolvere la loro condizione, finiscono però per rappresentare allegoricamente l’intera condizione umana delle donne, imprigionate in una società (ancora e fin troppo) maschilista come quella contemporanea.
A questo proposito il film è infarcito di una serie di rimandi allegorici, fin troppo espliciti, a tale condizione. Il più evidente è probabilmente quello all’enorme statua di cartapesta di Marylin, decisamente suggestiva, con cui il film inizia e finisce: prima accarezzata da Mia nella sequenza iniziale; poi luogo di riparo notturno per Wen, scappata di casa dopo un attacco di ira della madre; proseguendo per essere tappezzata sulle gambe, nel corso del film, da etichette e manifesti che ne contaminano la purezza; infine picconata, trapanata, tagliata ed estirpata dal suolo da alcuni operai (ancora una volta, tutti uomini). Tale mutamento corrisponde, in un eccesso di schematismo ideologico senza alcuna via d’uscita, esattamente alla condizione delle due ragazze (e della donna in generale): prima corteggiata e venerata per la sua bellezza, passa da rappresentare (per gli uomini?) una dimora accogliente all’essere infine tradita, etichettata, ferita e violentata (dagli stessi uomini) per delle colpe a lei non ascrivibili.
Gli angeli, così come la statua di Marylin nella tipica posa con la gonna svolazzante, vestono di bianco. Nella sequenza finale anche Mia, costretta alla fine a prostituire il suo corpo dall’ennesimo uomo-tiranno, veste di bianco. Qui, si ritrovano entrambe sull’autostrada: quest’ultima, in fuga su una vespa, vede la sua stessa allegoria legata orizzontalmente su un camion, probabilmente condotta verso la demolizione. Ed è proprio da quella distruzione, esteriore come interiore, che Mia scappa, chissà dove diretta, per la prima volta libera ed emancipata.
Sta tutto in questa grossolana allegoria, dunque, il vero limite del film. Questo Angels Wear White sarebbe potuta essere un’opera sull’impossibilità di verità e giustizia in un regime complesso come quello cinese, sul dilemma etico del ruolo ambiguo di una testimone oculare, che ha niente da guadagnare e tutto da perdere, per cui è impossibile prendere delle scelte. Nella seconda metà, invece, diventa un trattato superficiale, schematico e ultra-controllato, che non ha altro da dire se non ciò che intende comunicarci la regista: il suo, a tutti gli effetti, diventa dunque un film sulla società maschilista che plasma l’identità femminile a sua immagine e somiglianza, sulle donne come vittime di qualsiasi situazione che si trovano, loro malgrado, a vivere, sulla ricerca e sull’impossibilità di un amore maschile autentico e reale. Tutti temi a cui, ovviamente, ci sentiremmo politicamente di aderire, se non finissero liquefatti in un’idea di cinema debole, a senso unico e senza alcuna via d’uscita.