La vita in comune
Edoardo Winspeare firma una commedia surreale che prosegue idealmente nel solco della sua produzione più recente.
A Disperata, piccolo paesino del Salento, grandi buche nell’asfalto minano strade smunte dalla corruzione sugli appalti e dalle mancate manutenzioni. Le facciate delle case, dai colori spesso improponibili e discordanti, sono malmesse e davanti all’unico bar del paese stazionano i soliti ignoti. Invece di trovare soluzioni ai problemi, il consiglio comunale diventa un teatrino tragicomico del tutto autoreferenziale, in cui insulti e attacchi personali si alternano a malcelati tentativi di piegare il bene comune ai propri biechi scopi. Per non parlare dell’immancabile storico del luogo, talmente erudito sui pedanti dettagli della micro-storiografia locale da dimenticare che fuori c’è il mondo.
Che il toponimo sia, in realtà, inventato, poco importa. Disperata è il Sud del mondo, il “sud del sud dei Santi” di cui parlava Carmelo Bene, dove l’ignoranza riesce ad essere persino più forte della cattiveria, l’individualismo è autoconservazione, l’orizzonte quello basso dei campi di grano e delle chiese di campagna. E’ reale perché reale è la sua superficie specchiante, la sostanza dell’immagine che riflette. Talmente vera che anche solo per analogia semantica, è fin troppo facile risalire alla sua fonte d’ispirazione e verificarne, ammesso che sia poi così importante, l’esistenza sulle mappe. Stiamo parlando di Depressa, la minuscola frazione di Tricase in cui risiede Edoardo Winspeare, che dopo il buon successo di In gloria di Dio torna al cinema con La vita in comune, presentato in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia e molto applaudito dal pubblico in sala. Ma, dato questo contesto disperato (di nome e di fatto), ineludibile, è un’altra storia, un altro Sud, che Winspeare vuole raccontare.
Filippo Pisanelli, sindaco di Disperata – interpretato da Gustavo Caputo, attore non professionista nonché socio di Winspeare nella Saietta Film che ha prodotto questo e il precedente lavoro – è un uomo buono e malinconico che avverte tutte le limitazioni del suo impegno istituzionale, frenato da opposizioni sterili e opportunistiche e da una generale indolenza. Ad appagarlo, però, ci sono le lezioni di letteratura che impartisce in carcere ad alcuni detenuti. Uno, in particolare, Pati Rrunza (Claudio Giangreco), piccolo criminale macchiatosi dell’uccisione di un cane durante il goffo tentativo di rapina che apre il film, rimane folgorato dalla scoperta della poesia, perfetto strumento di liberazione e sublimazione che gli permette di esorcizzare un intollerabile senso di colpa.
L’amicizia tra i due diventa dunque l’innesco di un cambiamento che di lì a poco raggiungerà anche il fratello di Pati, Angiolino (il simpaticissimo riccioluto Antonio Carluccio), ossessionato dall’assurda idea di diventare il mammasantissima di Capo di Leuca (portando sulla cattiva strada anche il nipote finto duro-tontolone Biagetto) e distolto dal proposito grazie ad una provvidenziale telefonata dell’amato papa Francesco, sollecitato nel frattempo da una lettera scrittagli da Filippo e Pati. Ne viene fuori un trio surreale, deciso a difendere le bellezze del creato e a rilanciare il turismo del territorio con la folle idea di uno zoo. Intanto la foca monaca ricompare, segno che qualcosa forse potrà davvero cambiare.
L’integrazione degli ultimi – è chiaro il messaggio del film – avviene dunque attraverso la trasmissione della cultura e dell’arte (curioso che in Ex Libris di Wiseman, in concorso nella sezione principale qui a Venezia, un responsabile della Public Library di New York ne faccia il principale mezzo di appianamento delle disuguaglianze sociali). Un’educazione al bello che non può prescindere dal rispetto e dall’amore per l’ambiente.
Una sensibilità che, in La vita in comune, si traduce anche sul piano eidetico, facendosi immagine del tempo stesso della natura, dal procedere flemmatico di una lumaca alla statuaria adiaforia dei cavalli al pascolo, alla calma delle nubi. E che non viene sviluppata e celebrata in chiave esclusivamente narrativo-idealistica ma trova applicazione pratica nel tentativo rivoluzionario di rendere sostenibile buona parte del sistema produttivo, fatto di set che si avvalgono di mezzi di trasporto dolce, di pratiche di valorizzazione degli scarti alimentari, di pernottamenti a km0, di rifiuto della plastica e di baratto. Senza contare l’impegno ormai decennale di Winspeare con l’associazione Coppula Tisa, un’organizzazione non profit che persegue lo scopo di ripristinare la bellezza dei luoghi del Salento colpiti dalla cementificazione e dall’abusivismo edilizio. Del resto già ne In grazia di Dio l’autore si affidava ad una precaria comunità di donne che reinventano il proprio futuro, distrutto dalla concorrenza dei cinesi, puntando proprio sull’agricoltura.
La vita in comune è una commedia con una lieve venatura surreale che sa raccontare le storture del nostro Sud con dolcezza di sguardo e affettuosa ironia, senza aggressività o senso d’impotenza, ma con un sano e costruttivo ottimismo. Una fiducia nella bontà e nella possibilità del cambiamento che consente a Winspeare, in collaborazione con lo sceneggiatore Alessandro Valenti, di creare personaggi al limite del ridicolo senza mai sfociare davvero nella caricatura, ma, al contrario, esaltandone l’autenticità e l’umanità; i due principali elementi su cui costruire il senso di comunità cui il titolo allude . Ed è di lì che il Sud, insieme al cinema che lo racconta, deve ripartire.