Animata resistenza

I co-registi, Francesco Montagner e Alberto Girotto, illuminano l'umanità di carne ed ossa dell'icona autoriale Simone Massi, vertice sublime del linguaggio d'animazione

[…] non volevo ritrarre gli aspetti spettacolari della miseria, non volevo suscitare pietà nello spettatore.

Volevo suscitare un dibattito di idee, raggiungere una forma di pietas superiore, non la pietà sentimentale […] (Francesco Rosi in Dossier Rosi)

Venti anni di lavoro per ottanta minuti di cinema. Così come occorrono ben cinquemila lucciole per produrre il chiarore di una sola candela. La folgorazione fugace, intermittente, quanto senza dubbio tenace, della miracolosa danza di un grappolo di lucciole sovviene incisiva, e più di quanto si osi immaginare, a dirci il più leggiadro spessore della politica (po)etica, ecologica - nel senso più esistenziale dell’etimo - delle visioni animate di Simone Massi.

Simone Massi, che nell’immaginario cinematografico d’autore è prima di tutto rappresentazione iconica, nonché volto icona egli stesso, nella sempre felice, devota, antologica sigla introduttiva alle proiezioni ufficiali della Mostra di Venezia. Mano d’artista che si autoritrare, che si sublima sguardo nell’opera medesima, nel farsi simbiotico col proprio lavoro. Ecco perché in Animata resistenza, docu – racconto autobiografico dell’indiscutibilmente tenace qui e ora di Simone Massi, realizzata in co-regia da Francesco Montagner e Alberto Girotto, non può che affascinare il movimento inverso che dalla figurazione risale alla personalità e alla persona, che va dal gesto pittorico al sentire dell’animo, dall’animazione all’animismo della natura e del tempo, di cui l’uomo sognante e visionario si sente parte, cardine dialettico nelle manifestazioni apparenti dell’essere. La carnalità del viso, la tangibile geografia somatica, l’essenzialità e la riflessione nell’intonazione del parlato, sono straniamento di verosimiglianza se avvolti nella nota sciarpa rossa dell’artista, così esclusivo e complesso fil rouge, assurta quasi a ricorrente firma d’autore. Animata resistenza, animo resistente.

Le approssimazioni che hanno titolato l’esplorazione dell’universo artistico e valoriale di Simone Massi si declinano attorno al nucleo fondamentale della lotta per la liberazione e la difesa dell’estro creativo non come fuga, ma all’opposto come restituzione e riconsegna ad un mondo culturale eclissato della propria bellezza, fatta anche di silenzi e povertà, in un lessico di complementarietà in cui le piccole cose, nelle piccole storie, nelle reminiscenze, stanno per ricchezze inestimabili.

La regia pare votarsi totalmente all’artista (p)artigiano, che si racconta attraverso le proprie ispirazioni, i luoghi e le testimonianze, recuperando le fila del proprio percorso umano, non certo per autoreferenzialità, al contrario per farne prisma di riflessioni collettive, ganci memoriali condivisi del contemporaneo (l’esperienza d’operaio in fabbrica troppo presto, così come quella tra i banchi universitari troppo tardi) vocazione, fervore, pulsione di quest’esclusivo linguaggio visuale, vertice e genio celebrato da tempo a livello internazionale. L’arte di Massi non è solo l’ineguagliabile conciliazione di tecnica e pensiero autoriale, l’azione stoica di graffiare via il colore dal nero amnesico, si tratta in verità di una vera e propria dimensione, di uno stato mentale, civico ed empatico, del contatto interstiziale tra incanto e amore, di un bagliore che non si esibisce come merce in vetrina e non cede alla tentazione di barattare l’autodeterminazione, l’indipendenza, con la mera monetizzabilità dello spettacolo. L’arte di Simone Massi è fatica per lucida scelta, per sano orgoglio, per redenzione e riconoscenza verso le proprie origini e radici. Incidere la tavola di colore come arare il campo che darà il raccolto. La civiltà contadina domina benevolmente l’immaginario fantasticato di Massi, che ne fa cosmo ancestrale e metamorfosi onirica, surreale concatenazione mnestica, in cui mai è possibile concedersi un respiro di pace, di dimenticanza per il sangue versato, le armi imbracciate nella Resistenza, il fronte che non è mai stato solo trincea, ma anche esodo, perdizione, sacrificio sull’altare dell’industrializzazione.

Tutte quelle piccole storie che nella grande Storia si sono spente, per prendere a vagare come ombre e azioni misconosciute; sono quei volti su cui Massi traccia lineamenti come baratri e immensità negli sguardi trepidanti. (Come non tornare alla sequenza di ritratti nell’incipit del cinematografico Cristo si è fermato ad Eboli di Francesco Rosi!) Allo stesso modo Massi non commemora il passato, piuttosto ne prefigura la forza sopravvivente, la nostalgia per una certa qualità della vita, per reagire al disagio della civiltà attuale; reagire al presente che ancora, come soleva la lungimiranza pasoliniana, non piegato dai fascismi politici, cede sotto la spensieratezza del fascismo dei consumi, non avvedendosi affatto della deformazione della propria coscienza. Nel credere strenuamente nell’elogio del dialetto e nella potenza delle culture popolari, nell’estrinseca sensibilità ed energia che possono ancora spigionare, Massi realizza una personale tetralogia di narrazione della “marchigianità”, la terra natia che abita con passione, che è anima, prima che il poeta si appresti ad animarla, inscenarla, a sua volta.

Su grande schermo, certo, perché la speculazione delle immagini ci sovrasti, ci spinga nel moto del disvelamento microscopico, ci precipiti nella messa in abisso delle illusioni prospettiche che un tempo furono uomini …e animali, di carne e ossa, echi, risonanze, latrati, immortalati in una pascoliana infanzia dello sguardo. È qui la genesi di rielaborazione inconscia del suo Dell’ammazzare il maiale, opera che nel 2011 vince il David di Donatello per il miglior cortometraggio, per la prima volta conferito ad un’opera di animazione. È la rievocazione fuori campo dello strazio indelebile dell’animale al macello, che non si lascia condurre inerme al patibolo fuori dalla stalla e si dimena, strepita, trafigge l’udito per sempre, imponendo al ragazzino che fu l’incomprensione e il tormento, che collidono tra l’agire del fattore e la sua vittima. L’Incomprensione e il tormento che ancora accompagnano l’uomo che ora è e che cerca pacificazione con e per quello stesso, sofferto, caro mondo. Quella riconciliazione che non è che un abbraccio, d’’ascendenza bressoniana, tra la fanciullezza e l’animale, che va liberandosi in un continuo altrove, sospeso ne L’attesa del Maggio (2014), come un boschetto di lucciole tra le colline. È la bellissima metafora nuziale, di un ritrovato anello di ri-coniugazione al patto primordiale di fiducia con la terra … malgrado tutto! E dunque ancora Rosi, nella sua svolta più intimista, il Tre fratelli del 1981, cantore esemplare di un mondo arcaico solo assopito, di cui oggi Simone Massi si fa prodigioso, impagabile erede.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 11/10/2015

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