Il buco in testa
Il “film dell’incontro” di Antonio Capuano, uno dei più grandi e sottovalutati registi del nostro cinema
Devi per forza odiare l’assassino di tuo padre? O c’è anche un’altra possibilità? Esiste un’ipotesi alternativa? L’idea della cosiddetta pacificazione, ovvero banalmente “fare la pace”, meno banalmente trovare una quiete interiore da entrambe le parti, è una strada complessa ma incredibilmente plausibile. Lo dimostra Il libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Cerreti e Claudia Mazzuccato, che racconta l’esperimento giudiziario di far incontrare i parenti delle vittime con gli assassini degli anni di piombo, a distanza di decenni, con risultati spiazzanti e a tratti struggenti. Il volume viene citato ne La città dei vivi, l’ultimo libro non-fiction di Nicola Lagioia che scruta nell’abisso dell’omicidio di Luca Varani, ucciso da Foffo e Prato: e viene citato proprio per dire che in quel caso una pacificazione non sembra possibile. In una delle pagine migliori il senatore Luigi Manconi, impegnato nei diritti dei detenuti, regala il libro a Lagioia con sublime ironia: “Senza che i presenti se ne abbiano a male, lo considero il più bel libro italiano degli ultimi dieci anni”.
Antonio Capuano conosce sicuramente Il libro dell’incontro, e lo tiene presente nella costruzione del suo ultimo film, Il buco in testa, presentato al Torino Film Festival fuori concorso. Già ne L’amore buio del 2010 faceva incontrare il responsabile e la vittima di uno stupro. Qui il regista napoletano si ispira liberamente alla storia di Antonia Custra: figlia di Antonio, poliziotto che fu ammazzato in una manifestazione a Milano durante la primavera del 1977, da un colpo sparato da Mario Ferrandi, militante di Prima Linea immortalato nella più famosa fotografia di quegli anni. Antonia e Mario si incontrarono proprio in un bar milanese nel 2007, trent’anni dopo, trovando forse quella pacificazione tanto rara quanto preziosa, prima della morte della donna per un tumore nel 2017. Il cineasta riscrive la storia, installandola nel 2020: Maria (una sempre magnifica Teresa Saponangelo) si lancia alla ricerca di Guido (Tommaso Ragno, altrettanto), ex brigatista che ha finito di scontare la sua pena per l’omicidio del padre. Colui che ha scavato il metaforico “buco in testa” a tutti i parenti della vittima, sia la figlia che la moglie, ormai semi-catatonica e terrorizzata da un “impossibile” ritorno delle Brigate rosse (in una scena da brividi). La ricerca, dunque: Maria vuole parlare con Guido, vuole dire ma soprattutto farsi dire, come è andata e perché, quale fu il senso di sparare a un giovane sconosciuto, come si ripensa quella tragedia oggi.
Ma attenzione: il “film del ritorno“ è solo una delle tante spinte che compongono Il buco in testa. Perché Antonio Capuano, arrivato a 80 anni, è uno degli autori centrali del nostro cinema, anche se nessuno lo sa: prima di tutto è il più maturo del nuovo corso napoletano, quello che comprende Mario Martone, Pappi Corsicato, Antonietta De Lillo e Stefano Incerti. Da lui deriva Paolo Sorrentino che, ai primi passi, con Capuano scrisse Polvere di Napoli, poi riportando ed estremizzando alcune forme nel suo cinema di iper-deformazione grottesca, sorrentiniana, ben più famosa ma in debito. È anche un anticipatore, Capuano: ha girato La guerra di Mario prima de Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne, e si provi a guardarli in successione, si confronti Valeria Golino con Cécile de France...
Anche Il buco in testa, come altri suoi film, ha un centro ma dirazza, è pieno di “cose”. Il cinema di Capuano nasce nei vicoli di Napoli, ma anche sui palchi: è figlio del teatro partenopeo, della tradizione e insieme dei laboratori sperimentali, degli scantinati e dell’improvvisazione: basta vedere i duetti di Teresa Saponangelo e Francesco Di Leva sul lungomare, che sono forse amanti, a metà tra attrazione e repulsa, tra costruzione e genuinità, tra centro del discorso e divagazione. La donna non sa stare ferma, si infuria, si dimena in modo animalesco davanti al mare. Il teatro è anche il luogo in cui vediamo le prove di una recita, eseguita da giovani ragazze: una tenera speranza che la tradizione possa continuare domani.
È un cinema segnato dall’ombra perenne della camorra. Se a volte questa è il punto, come in Pianese Nunzio 14 anni a maggio, col prete anticamorra interpretato da Fabrizio Bentivoglio, qui è invece lo sfondo: la criminalità è quell'umore che fa a dire agli studenti che è noioso studiare Figli di un Bronx minore di Peppe Lanzetta, e prende forma tangibile nel cadavere ritrovato sulla spiaggia. Tutto è camorra intorno a Maria, il ragazzo che la scippa così come l’immobilismo che conduce il corpo sociale alla stasi, nulla si muove, anche la madre è “bloccata”, in tal senso gli effetti del terrorismo si saldano direttamente a quelli della criminalità organizzata. Svuotare menti e spaccare cuori.
Il buco in testa è però anche un'altra cosa, ovvero un film fatto di cinema, che del teatro è l'erede consapevole: nella prima scena Capuano omaggia il treno dei Lumière, che diventa un Frecciarossa nella stazione centrale di Milano dove arriva la protagonista, in cerca dell'assassino. Il racconto si compone per piani temporali alternati: Maria a Napoli con i capelli lunghi, che per interposto personaggio incide l’affresco della sua realtà, Maria a Milano con i capelli corti, che recita il film dell’incontro. L’incastro tra i livelli è di una raffinatezza tutta cinematografica. Fino al violento scambio verbale con il responsabile, in un crescendo quasi mametiano, che raggiunge l’apice e apre la porta alla catarsi. In chiusura, sullo stesso treno, Teresa Saponangelo regala una splendida battuta finale, che esalta l’idea di “fare pace” con la massima naturalezza eppure con una forza devastante.
Non si cerchi la perfezione stilistica nel cinema di Antonio Capuano: è fatto di strappi, istinti, strade prese e poi lasciate. Una per tutte: Maria che parla in camera all’inizio rivolgendosi a noi, un marchio antinaturalista dell’autore, per poi smettere nel corso del racconto e ricomporre la quarta parete. Ma non è questo il punto: il punto è nell’odore dell’arte di periferia che qui si respira, quindi della vita, nel movimento scomposto che affronta il grande tema senza enunciarlo, ma lasciandolo emergere attraverso le possibilità della narrazione cinematografica. Realtà napoletana, teatro e cinema, buchi interiori, amori impossibili, saldo del debito con la lotta armata: non è forse questo un grande film italiano?