Appennino
Emiliano Dante documenta i luoghi e le persone coinvolte nel terremoto del 2016 firmando un’opera personale che sfrutta egregiamente tutto il potenziale del cinema
Alla domanda se ci siano o meno dei tabù infrangibili, il comico Giorgio Montanini rispose di sì, che in effetti alcuni limiti invalicabili esistono eccome, citando come esempio proprio i terremotati: “Scherzarci su è davvero troppo presto”. Se è vero che la distanza tra la satira e il cinema del reale è enorme, è tuttavia innegabile che entrambe considerano il proprio oggetto d’indagine come un pretesto, qualcosa su cui ridere o da mostrare in tutta la sua soggettiva verità per parlare, in realtà, dell’essere umano e del suo rapporto col mondo.
Emiliano Dante, aquilano, giunge al suo terzo lungometraggio insistendo sulle conseguenze della ricostruzione e sulle relazioni sentimentali ed affettive che si sviluppano dopo la tragedia del sisma. Dopo Into the Blue (2009) e Habitat – Note personali (2014), è la volta di un lavoro che riparte ancora dal capoluogo abruzzese ma fa subito i conti col presente (le scosse di Accumoli ed Arquata del Tronto del 24 agosto del 2016) tanto da fargli abbandonare in corso d’opera la sua città alla volta dei luoghi e delle persone interessate dalla cronaca di quei giorni. Appennino è un diario sul terremoto scritto e messo in scena da un autore in cerca della propria personale elaborazione che finisce per diventare un compendio di appunti sul movimento rispetto alla staticità, sulla trasformazione rispetto alla conservazione e, infine, sulla provvisorietà rispetto alla stabilità. E l’elenco dei temi rintracciabili nel documentario, in concorso all’ultima edizione del festival di Torino nella sezione Italiana.doc, potrebbe continuare a lungo e comprendere tutto ciò che si contrappone a un’idea di esistenza che nel tempo resti immutabile.I personaggi coinvolti reagiscono ognuno a proprio modo e secondo la propria sensibilità alla scossa che hanno subito diventando persone diverse, chi risvegliandosi dal torpore di una vita sempre uguale a sé stessa, chi abituandosi a non mettere mai più radici. C’è spazio per la nascita di un amore, per una nuova e migliore consapevolezza rispetto al lavoro e al rapporto con gli altri ma anche per l’ombra di inediti cinismi e disperate resistenze al volere dello Stato.
Il regista, montatore e autore delle musiche, non fornisce soluzioni concilianti e consolatorie né registra l’oblio dei soggetti a cui da voce e corpo. Tutto è in divenire e certamente la fine delle cinquecento inquadrature, puntualmente segnalate, non esaurisce le vicende narrate. Soprattutto, Appennino registra come il cinema, e in particolare il montaggio, riesca a dare ordine al caos e permetta la magnifica realizzazione di un paradosso, ovvero di fissare e rendere eterno la messa in moto della reazione a un trauma, mostrando con grande intelligenza visiva come anche l’essenza granitica di una catena montuosa possa trasformarsi nella beffarda liquidità delle onde del mare.