Baba Vanga
Allieva della film.factory di Bela Tarr, Aleksandra Niemczyk esordisce con un film evocativo e dal grande fascino visivo costruito attorno alla figura della famosa veggente dei Balcani.
Baba Vanga è una giovane donna balcanica che vive isolata in una casa nei boschi. Le stanze della sua abitazione sono vuote ma disordinate, portano ancora i segni di un caos che forse ha solo origine naturale, difficile immaginare una presenza umana ulteriore in questo luogo vicino all’abbandono. Ma la solitudine della donna durerà poco. Appena adolescente subisce le violenze di un tornado improvviso che la priva del senso della vista, una cecità a cui segue una nuova e superiore capacità di sguardo, un nuovo mondo di voci e presenze si dispiega attorno a lei. La casa di Baba Vanga diventa un’installazione sensoriale dove le coordinate spaziotemporali saltano per mescolarsi senza soluzione di continuità. Schermi di un verde acido si diffondono negli ambienti per replicare segnali dall’oltre, passato e futuro che forse sono solo nella mente della donna, o magari chissà qualcosa sta viaggiando nell’etere del mondo. I filmati che si ripropongono in loop nascono da film scifi degli anni Cinquanta, footage pubblici di momenti storici, documenti video sui cataclismi di primo Novecento. Il mondo cieco di Baba Vanga si riempie di immagini e sagome, fantasmi oltre la soglia, fino a che un uomo di carne ed ossa entra nella sua casa. Chiede chi abbia ucciso i suoi fratelli, ma non cerca vendetta. Giura di non spargere altro sangue. Forse il suo nome è Dimit?r Gušterov, il soldato bulgaro che secondo la Storia nel 10 maggio del 1942 sposerà la sedicente veggente Baba Vanga.
L’esordio di Aleksandra Niemczyk racchiude in tre momenti la vita di Baba Vanga, ricordata come una delle grandi profetesse del Novecento. All’inizio la scopriamo giovane, sola, in attesa di quel fenomeno (in)naturale che le porterà via gli occhi per donarle dice una seconda vista; adesso è il momento delle apparizioni e degli incontri, compreso quello fortuito con Dimit?r, di cui Niemczyk però non mostra l’esito sentimentale ma solo la disperata ossessione per la verità; infine la ritroviamo invecchiata, di nuovo sola, ancorata alle predizioni vere e presunte che oggi ruotano attorno alla sua figura tracciando scenari storici inquietanti, ritornanti. Come un’illuminata scrittrice di fantascienza, la Baba Vanga di Niemczyk evoca guardando nel vuoto ogni sorta di accadimento, senza alcuno accanto che sia lì a ricevere e comprendere gli avvertimenti: guerre nucleari e scoperte scientifiche, androidi, animali meccanici e organi ricreati in laboratorio, malattie mortali; si scioglieranno le calotte polari mentre un conflitto tra la Terra e le colonie su Marte porterà ad un cambio di traiettoria del nostro pianeta; l’uomo scoprirà nuove facoltà intellettive e infine l’immortalità, mentre il mondo procede dritto verso la sua fine. In mezzo c’è stata la fine dell’Europa e la divisione degli uomini in tribù di fede, ma anche le religioni stesse dice sono condannate a cambiar di ruolo, perdere importanza, cicli che si aprono e si chiudono.
Ex studentessa della film.factory di Bela Tarr – la scuola di cinema fondata dal grande regista a Sarajevo nel 2012, purtroppo in chiusura oggi per mancanza di fondi – Niemczyk esordisce al lungometraggio con un film molto fedele alla visione estetica e poetica del suo maestro, che oltre ad essere citato come “mentore” compare nelle vesti di co-produttore. Baba Vanga infatti è intessuto di lunghe inquadrature fisse alternate a quadri più brevi dalla sorprendente forza compositiva, mentre ai margini dell’inquadratura si avverte con chiarezza la pressione di una fine incombente, un senso di entropia che investe oggetti e corpi (come nella straordinaria sequenza del tornado). La Niemczyk scarta ogni paradigma del film biografico e approccia la storia di Baba Vanga come il canovaccio attorno al quale costruire un’esperienza visiva e pittorica in cui all’estrema cura formale si accompagna un talento espressivo evidente, che fa dialogare la suggestione ermetica con l’evocazione di tensioni vicine al genere. La solitudine di Tiresia, del veggente cieco e ripudiato, traspare attraverso immagini domestiche e assieme apocalittiche che restano nella memoria.
Ad arginare forse la forza del film resta solo il forte senso di filiazione che serpeggia in questo sguardo, a volte davvero libero e sorprendente per la forza delle sue soluzioni, altre troppo vicino alla complessa visione cinematografica e filosofica di Tarr, talmente strutturata e coerente in sé che a prenderla come riferimento si rischia di cadere in una traiettoria dal sapore eterodiretto. Ma si tratta davvero di peccati veniali, in fin dei conti connaturali all’omaggio cinematografico e umano che comunque il film vuole evidentemente essere. La vera speranza è che Niemczyk abbia modo di andare avanti da qui, sviluppando le tensioni più personali e impattanti di questo suo bell’esordio.