O Cinema, Manoel de Oliveira e Eu
Joao Botelho guida lo spettatore in un meraviglioso viaggio nel cinema del grande Manoel de Oliveira, che fu suo maestro
Dopo l’esperienza dello scorso anno, torna al Festival del Cinema di Pesaro l’appuntamento con la sezione crito-film, ideata e diretta da Adriano Aprà: un cinema che pensi il cinema, un cinema-saggio che svolga una funzione di analisi e critica, che abbia una valenza esplicativa e didattica e che utilizzi lo stesso medium delle opere che va ad indagare, sezionare, raccontare.
Potrebbe essere proprio questo, suggerisce Aprà, il futuro della critica; lui stesso, nel corso del tempo ha realizzato diversi film-saggio su Rossellini, Fellini e Bertolucci.
Tra le opere presentate nel corso dell’edizione 2017, O Cinema, Manoel de Oliveira e Eu, l’ultimo film del regista portoghese Joa?o Botelho che fa parte, tra l’altro, della giuria pesarese di quest’anno assieme a Mario Brenta e Valentina Carnelutti.
Botelho firma un omaggio sentito e sincero al grande Manoel de Oliveira che fu suo maestro, cucendo assieme le sequenze di più di venti film del prolifico regista - da Douro, Faina Fluvial (1931) fino a buñueliano Belle Toujours (2006) - cercando, di volta in volta, di illustrare i suoi metodi di lavoro, le folgoranti intuizioni e le attente riflessioni che stanno dietro le singole e originali scelte linguistiche. Con un serrato commento fuori campo, l’autore accompagna le immagini di de Oliveira; da un lato contestualizza, di volta in volta, il suo lavoro, dall’altro svela gli ingegnosi trucchi del mestiere per fare del suo critofilm, in ultimo, una vera e propria lezione di cinema.
Ma è soprattutto l’ultima parte dell’opera che apre, fecondamente, un orizzonte inaspettato: perché Botelho riparte da un progetto mai realizzato di de Oliveira e lo concretizza in splendide sequenze di cinema muto, dove il trattamento dell’immagine – il rapporto tra luci e ombre, il fuori fuoco – si fa citazione, riferimento, strumento evocativo. E’ il racconto della vita travagliata di una donna, “la ragazza dai guanti bianchi” (Mariana Dias), che dovrà difendersi prima dalla violenza del padre e poi, fuggita di casa, da quella del mondo esterno: una favola nera e disperata, che Botelho – nelle note di regia – dice di aver girato “come se la mano e gli occhi di de Oliveira, vicini a Dio, o tra gli dei, mi guidassero, cosicché anche adesso lui possa continuare a realizzare film attraverso me”.
Soprattutto, è interessante rilevare in O Cinema, Manoel de Oliveira e Eu, la contiguità tra la parte prettamente documentaristica e quella di fiction: le sequenze girate da Botelho trovano spazio nel film in maniera naturale, legandosi ai brani filmici di de Oliveira senza soluzione di continuità, quasi ne fossero – o meglio, perché in un certo senso ne sono effettivamente – lo spontaneo e ineludibile proseguimento. Questo rapporto di fluido interscambio tra realtà e finzione non è casuale né arbitrario, ma è il segno tangibile di un modo specifico di approcciare al cinema, che Botelho sembra avere ereditato dal suo mentore: “per lui, e ora per me, documentario e finzione vanno di pari passo: si tratta comunque di cinema”, afferma ancora il regista.
L’opera di Botelho, stimolante e coinvolgente, è un affresco complesso, ricco e variegato ed è anche una preziosa testimonianza che riesce a restituire pienamente la grandiosità e il fascino del cinema di de Oliveira; ma è soprattutto una emozionante e sentita dichiarazione d’amore, che si propone di mitigare la nostalgia e di colmare il vuoto che la scomparsa dell’indimenticabile cineasta ha lasciato.