Bang Bang Baby
Tra le traiettorie del romanzo di formazione e della gangster story, la serie creata da Andrea Di Stefano lascia intravedere un progetto radicale che riflette sulla dipendenza tutta contemporanea dalle immagini.
La prima immagine di Bang Bang Baby è tutta nel reame della finzione. È quella di un film americano che la sedicenne Alice guarda mentre aspetta, in un bar di Milano di essere “battezzata” come membro della cosca mafiosa di suo padre e di ricevere il nome della sua prima vittima. Alice guarda la donna protagonista del film, forse si rivede nella sua indipendenza, poi si distrae con uno dei martellanti spot delle Big Babol che inscena una sparatoria a colpi di gomme da masticare. Probabilmente sublima attraverso le immagini la violenza che l’attende. Eppure, anche quando la sequenza prosegue, la sensazione è che ancora non si sia usciti da una rappresentazione orientata degli spazi: perché quella sembra più una Milano ideale, disegnata dai neon à la Refn, puntellata da cartelloni pubblicitari, da escrescenze pop, da sfumature noir, un’idea di Milano, più che la vera Milano.
I suoi discorsi migliori, Bang Bang Baby li compie evidentemente ragionando sul linguaggio, sulla rappresentazione e, in questo senso, compie una scelta non scontata. Perché il nostro cinema si confronta costantemente con il problema del realismo a tutti i costi, una sorta di debito contratto con i vari Rossellini e De Sica, ingombrante a tal punto che anche quando si prova ad esplorare altre strade, non ci si riesce a liberare da certi detriti di quello sguardo: la periferia Pasoliniana de Lo Chiamavano Jeeg Robot, il precariato di Smetto Quando Voglio, le dipendenze di Veloce come il vento. E allora, a Bang Bang Baby va in primo luogo riconosciuto il merito di aver affrontato la questione di petto, sporcandosi le mani alla ricerca di una via di fuga. Perché la fonte di partenza della serie è reale (si tratta del memoir L’intoccabile, in cui Marisa Merico racconta la sua adolescenza come giovanissima componente di una famiglia mafiosa nella Milano degli anni ‘80) ma Bang Bang Baby non fa nulla per conservare uno sguardo realistico sul racconto, come tradiscono certi vertiginosi detriti immaginifici “fuori posto”, tra una provincia lombarda che ricorda i sobborghi americani e uova e bacon a colazione. Il passato diventa un catalogo di immagini, un mero decor, gli spazi vengono ricreati nei minimi dettagli e svelano evidentemente il loro debito con un tempo altro, continui riferimenti alla cultura di massa ibrida degli anni ’80, tesa tra l’Italia e l’America, tra l’edonismo e l’ottimismo a tutti i costi puntellano i dialoghi, evocano altre traiettorie, altri spazi, gli spot in voga, i popolari programmi della seria prima. Ma tutto si sviluppa con tale violenza da far girare la Retromania a vuoto e da far inceppare il meccanismo della rappresentazione, bloccato nel limbo tra vero e verosimile, realtà e sua rappresentazione. In questo modo, lasciando da parte ogni tentativo di “ispirarsi ad una storia vera”, Bang Bang Baby può modellare uno spazio narrativo vivacissimo, in cui il gangster movie dialoga con il racconto di formazione e le traiettorie narrative spaziano tra la classicità di Antigone e Shakespeare ed uno spazio gamificato.
Lentamente, tuttavia, il sistema si estremizza, si fa strada l’idea che niente di ciò che si vede possa sostenersi da solo, debba per forza appoggiarsi a qualcos’altro, ad altre immagini, ad altri riferimenti, alla nostalgia, certo, ma anche al Silenzio degli Innocenti di Demme a Breaking Bad, ai B Movie italiani. Forse non è un caso che, in una delle sequenze centrali della serie Alice ricostruisca i suoi ricordi d’infanzia come in una sitcom retrò americana, rifugiandosi, ancora, in altri spazi, lanciandosi, ancora, in un’altra fuga dalla realtà. Bang Bang Baby è un progetto radicale in questo senso, che, a partire dalla “debolezza” dei segni postmoderni racconta alla perfezione la nostra dipendenza dalle immagini, dalla rappresentazione, dalla vetrinizzazione. E allora ecco che della mafia la serie sottolinea con intelligenza soprattutto la dimensione performativa, ritualistica oltreché la sua necessità di difendere l’onore anche attraverso l’immagine che offre di sé. Di fatto, il prevedibile makeover che coinvolge la protagonista una volta entrata davvero nelle dinamiche famigliari è forse la punta dell’iceberg di un progetto che lucidamente espone e disinnesca una dipendenza dalle immagini che coinvolge persino la mafia, sedotta dalla patinata Milano Da Bere, affascinata dalle luci di Fininvest e al contempo legatissima allo spazio tutto performativo di una religiosità folkloristica. E allora, a spiccare è soprattutto la complessità di Nereo Ferraù, davvero un’entità simbolo di gran parte dei discorsi della serie, un uomo d’onore che dissimula di continuo la sua omosessualità latente, che ama George Michael e che, ostracizzato dalla famiglia, finirà per trovare una (effimera) ragion d’essere quando verrà ingaggiato come sosia del popolare cantante dopo un provino nella leggendaria Cologno Monzese.
A tratti, Bang Bang Baby agisce con un passo ambizioso, non si fa problemi a spingere il suo sguardo al limite, a sporgersi su abissi kitsch, a portare alla luce la presenza della macchina-cinema anche nel racconto della mafia (a tal punto che certe sequenze ambientate in Calabria hanno il sapore del folk horror) ma si ferma un attimo prima del baratro. Per questo, a tratti, la serie inciampa, finisce fuori fuoco, forse trova la sua misura solo nelle ultime due puntate, quelle con le immagini più forti, con le idee più estreme. Negli altri casi combatte con le sue stesse insicurezze, quasi a voler giustificare le sue argomentazioni e allora cede ad una certa rigidità nella costruzione delle dinamiche, si rifugia in una sconveniente ripetitività. A farne le spese è soprattutto un epilogo fiaccamente convenzionale, che rischia di disinnescare molto dello spirito ribelle emerso fino a quel momento. Ma forse si tratta di una scelta prevedibile, del tentativo, estremo, di sbloccare un racconto che in realtà, prigioniero di immagini inerti, avrebbe finito per girare a vuoto. Certo, colpisce ciò che si intravede tra i fotogrammi di Bang Bang Baby, che nei suoi momenti migliori è quasi un progetto d’archivio sul sommerso culturale degli anni ‘80, che incrocia la cedrata Tassoni con la competizione Cuccarini/Parisi, le tv private con le canzoni di Ivan Cattaneo e Mia Martini ma arriva ad evocare anche certi traumi di quegli anni, come nel vertiginoso parallelo tra la seduta spiritica con cui si cerca il mafioso Salvo Ferraù e l’analogo rituale che coinvolse i vertici Dc durante il sequestro Moro.
Sarebbe potuto essere davvero un progetto estremo e luminosissimo Bang Bang Baby, che, mitigato dal contesto delle piattaforme, addolcisce il suo passo perdendo, tuttavia, uno sguardo quasi impietoso sul presente. Alla fine, a sopravvivere sono delle intuizioni straordinarie sul rapporto tra noi e l’immaginario ma anche l’evidente passione con cui è stata sviluppata la cornice concettuale del progetto. Il rischio, certo, è che si tratti di un esperimento così ambizioso da risultare un’esperienza isolata, che nessuno, data la posta in gioco e la complessità della materia, avrà la lungimiranza di continuare a sviluppare.