L'ultima notte di Amore
Noir metropolitano in grado di esaltare il genere e raccontare porzioni importanti del reale, a partire dal modo in cui impiega e rende per immagini la città, argomento troppo a lungo disimparato dal nostro cinema e qui, finalmente, vivificato.
L’ultima notte di Amore si apre con una lunga ripresa aerea, il sorvolo morbido di un drone che attraversa la notte di Milano secondo una traiettoria centrifuga che dai quartieri centrali porta verso strade più periferiche, connettendo gli spazi verticali dei grattacieli d’affari all’orizzontalità della stazione ferroviaria, dei palazzoni anonimi e popolari. Che incipit magnifico. Ma non solo e non tanto per l’eleganza del movimento, per il fascino notturno di una metropoli che si schiude dall’alto, rivelando viscere, organi e corpuscoli; a colpire è soprattutto la chiarezza d’intenti di Andrea Di Stefano, la lucidità del presentare così un film che si pensa come noir metropolitano incentrato sul concetto di spazio. Sull’idea di quanto questo reticolo di cemento e relazioni, calcestruzzo e inganni, sia ciò che anzitutto informa questa storia, ne plasma dinamiche e contraddizioni, il carattere dei personaggi.
Che poi, in questa Milano tarlata da affari cinesi sotterranei come lo era la Londra russofona di Cronenberg, in La promessa dell’assassino, dove sono i milanesi? O meglio chi sono, da dove provengono? L’alienazione che si respira nel racconto è dovuta in buona parte al fatto che la storia raccontata è quella di migranti regionali e cinesi immigrati o di seconda generazione. L’accento e la cadenza del nord sono riservati ai personaggi di contorno, il resto di loro presenta i tratti dei corpi trapiantati, ripristinati in luoghi nuovi che possano ospitarne una seconda vita. A rilanciare questo senso di disconnessione e frammentazione e diaspora esistenziale, il fatto che buona parte dei poliziotti presenti siano non tanto corrotti quanto piuttosto manovalanza al soldo di poteri criminali opposti a quello statale. L’intreccio noir è animato da forze dell’ordine “prese a prestito” e assoldate come pedine, forza lavoro mercenaria non per disinteresse morale ma necessità economica. Eco alienata e paradossale dei poliziotti figli dei poveri di pasoliniana memoria.
Non è un caso quindi che un terzo e più del film si svolga nei pochi metri di uno svincolo autostradale, un non luogo per eccellenza in cui si dispiega una lunga, fulminante sequenza che di statico non ha nulla, è groviglio di cavi elettrici pronti alla scossa. Tutti i personaggi ruotano attorno alle due macchine ferme lungo la strada, ai corpi crivellati dai colpi, bruciati, martoriati, a pistole che passano di mano tra i morti e occhi sbarrati, fissi su un ultimo sguardo (uno di questi viene raccontato con una parentesi di umanità esterrefatta che non stonerebbe in un film di Mann: «avevano detto che non avresti sparato…»). A smuovere il film ci pensa il personaggio di Franco Amore, familiare eppure cristallino, prevedibile se volete ma carico di coerenza e integrità. Difficile non stargli addosso, non sentirlo vicino come un nuovo Carlito nella sua ultima corsa, ultimo giro di bevute…
Per questi e altri motivi (ad esempio le musiche, magnifiche e cariche di echi cinematografici poliziotteschi, firmate da Santi Pulvirenti; o ancora, la scrittura brillante del personaggio di Viviana, compagna dell’eroe finalmente dotata di autonomia e identità forti, valorizzate dalla bravissima Linda Caridi) L’ultima notte di Amore è tra i migliori film italiani degli ultimi anni, non solo noir (o polar che dir si voglia) ma in generale. E certo non perché si elevi dal genere, ne superi i limiti o altre baggianate snobistiche di cui dovremmo esserci, si spera, liberati; piuttosto proprio grazie al genere, al suo dispiego intelligente, consapevole, carico di rispetto per le sue regole e di una forza registica in grado di pensarne le coordinate per immagini, una volta tanto potenti, solide, a volte memorabili. Un film prezioso, quello di Di Stefano, una scarica elettrica in un corpo asfittico che di poliziotti e crimine troppo spesso ha disimparato a parlare, e che la città, argomento negletto, ha pressoché smesso di guardare, raccontare, capire. Perché è sempre nell’intersecarsi dei livelli urbani, nel ricostruire movimenti e geometrie dentro spazi figurabili, traiettorie ascendenti/discendenti – centrifughe/centripete, che si può raccontare l’umano, i suoi modi di stare assieme, una visione del mondo. O una lunga, ultima, notte d’amore.