Diamanti grezzi
Il nuovo capolavoro dei fratelli Safdie dal 31 gennaio su Netflix.
Introdursi in un film grazie a una colonscopia fa già intuire la stoffa di Josh e Ben Safdie, i fratelli del nuovissimo cinema americano “indipendente” prodotti per questo film da Martin Scorsese e pupilli della casa di produzione del momento, la A24. Al loro terzo lungometraggio, i Safdie Brothers arrivano con una bomba a orologeria, Diamanti grezzi, una corsa turbinosa senza meta in un sottomondo metropolitano vizioso, sporco, avaro. Adam Sandler è Howard Ratner, un gioielliere dipendente dalle scommesse e dal fallimento, innamorato dell’utopia di un lusso scintillante che, in possesso di un opale nero illegalmente importato dall’Etiopia, comincia la sua delirante corsa verso il baratro.
Con Uncut Gems (come vuole il titolo originale) la coppia di registi conferma un cinema frenetico, una ricerca affannosa, che scorre davanti agli occhi dello spettatore e sprofonda nei cunicoli di una roccia o nelle interiora del protagonista, fino al lisergico viaggio di un buco nel cervello. Sandler in stato di grazia, forse mai come qui, impersona l’appesantito gioielliere ebreo che usa lo slang metropolitano, reiterati "fock!" e "waddafock!" e corre, corre, come un dopplegänger del Connie di Good Time. Ma Ratner non è un salvatore, è votato solo alla propria sconfitta e a distruggere tutto quello che gli è intorno (famiglia, figli, amante), fa sempre la scelta sbagliata perché vuole continuare a scommettere e perdere e rifarlo ancora. Attanagliato dai creditori, diviso tra la famiglia e il desiderio per un’altra donna, Ratner insegue il suo opale nero, in prestito prima al giocatore di basket Kevin Garnett (quello vero!), poi di nuovo tra le sue mani, merce di scambio per redimere la sua disperazione.
Il grottesco alternato alla violenza, le musiche di Daniel Lopatin, aka Oneohtrix Point Never, quasi a sublimare le caotiche disavventure di un balordo, l’occhio freddo di Darius Khondji a immortalare quei corpi irrefrenabili nella città che non dorme mai. Dopo l’incendiario Heaven Knows What e l’inseguimento psiconauta di Good Time, Josh e Ben Safdie ci danno un’altra grande prova della loro arte. Diamanti grezzi è pura adrenalina, cassavetesiano per ammissione e scorsesiano per retaggio, come possiamo non pensare al ticchettio di Fuori orario o alle violente strade del cinema di Michael Mann? New York è l’utero che accoglie i suoi bad guys e i registi conoscono bene i sotterranei con i suoi miserabili sbandati, che assicurano il proprio amore tatuandosi un nome su una chiappa.
Nella meravigliosa scena del concerto di The Weeknd, la traiettoria dello sguardo di Howard apparentemente verso il suo oggetto del desiderio, Julia, la sua gemma incarnata, non è altro che uno sguardo allucinato verso la sua fine, consapevole di rincorrere, tra perenni urla, pugni, strattoni, una disordinata conclusione. E allora lunga vita a questo cinema, libero, focoso e appassionato, lunga vita a una poesia che si trova in un quotidiano lacerato, disperato e tenero, che persino nei titoli di coda ha l’energico guizzo di una sorpresa, un film che non si vorrebbe mai terminare, sequenza dopo sequenza, orgasmo, tachicardia.