La monocromia è peculiarità fondante nel lavoro di Roberto Di Vito, un bianco insistente, penetrante, ossessionante; presente in ogni passaggio, a tratti padrone della scena. Bianco per l’appunto. Dissolvenze, cornici, scenografia, fotografia, tutto è orientato ostinatamente nella direzione della forma: una forma originale senza dubbio, caratterizzante seppur smaccatamente posticcia, contraffatta. Una fisionomia che diviene elemento fondante di tutto il lavoro, così penetrante nell’opera di Di Vito da divenirne padrona indiscussa, schiacciando sotto il suo peso ciò che ne resta dell’intreccio narrativo, del contesto. Bianco è un punto e a capo continuo, un saggio nel quale tutto s’inchina alla supremazia dilaniante delle sensazioni più epidermiche, quelle che istintivamente s’incuneano lasciando ben presto spazio al dubbio; una punteggiatura (forse) esageratamente presente che sottrae linearità al lavoro, costringendo lo spettatore ad un continuo rifiatare, ad un ossessivo resettare per poter guardare l’ennesimo punto e ripartire da un nuovo capoverso.
Il limbo nel quale il protagonista sprofonda apre la mente, svuota le sue sensazioni, le azzera per farle ripartire limpide, nuove. Ciò che sembra la fine può farsi principio, relegando l’uomo allo stato primordiale di riscoperta continua, di un percorso tutto da attraversare, pulito dalle storture della bramosia, calato in un vortice di purezza finalmente genuina. Ricordi della vita passata affiorano, facendosi spazio a fatica tra le dita legate e le labbra serrate dal bavaglio. Tutto intorno il bianco prende il sopravvento, abbagliando lo sguardo, rilasciando lentamente il suo intrinseco candore. I ricordi affiorano timidamente, deturpati dell’arroganza con la quale dominavano la vita precedente, ora sono strumento d’indagine e nulla più, vezzo superfluo in attesa della ripartenza. Banditi d’infimo ordine sono il piede di porco che scardina la serratura, un rapimento il MacGuffin hitchcockiano che azzera i colori, tutto tende al limite ultimo dell’azzeramento, che siano i ricordi come le emozioni come la scala cromatica fin lì conosciuta.
Roberto Di Vito firma la sua prima opera a lungo minutaggio, un’opera totalmente sperimentale, coraggiosa con certezza, un film scomodo da recepire così piegato alla volontà del suo apparire. Tanti paragrafi dicevamo, col vizio imperdonabile di formare un claudicante discorso più ampio; la bilancia pende costantemente dalla medesima parte tessendo una tela intrigante e a suo modo avanguardista, sconnessa però e manchevole di uniformità. A Bianco e al suo autore vanno riconosciuti indubbi meriti, che vanno dall’audacia all’originalità, così come non possono essere negate delle critiche, seppure queste ultime vadano indiscutibilmente plasmate intorno a discorsi che, nei casi – come questo – di un film a basso o bassissimo costo, non possono e non vogliono avere i crismi dell’assolutismo: perché se da un lato abbiamo conferito al film l’innegabile odore di novità che lo allontana da quel magma di cinema indipendente che troppo spesso si ripete uguale a se stesso, dall’altro l’amatorialità di Bianco fa capolino in diversi comparti della sua struttura.
Ma in fondo bassi costi vogliono dire per forza di cose non poter eccellere nella tecnica, ciò equivale ad assolvere Bianco da quelle che possiamo definire le sue colpe; non ci resta quindi altro da fare se non affrontare quel dubbio, quella sensazione persistente di esser stati continuamente scossi dalla visione, perturbante e disordinata senz’altro, difettosa nell’equazione tra forma e contenuto probabilmente.