Fractured
A più di un decennio di distanza da "L'uomo senza sonno", Brad Anderson torna all'horror paranoico e allucinato con un film Netflix risaputo e senza inventiva.
Ha qualcosa della promessa non mantenuta, la carriera di Brad Anderson. Un percorso iniziato col botto, con un piccolo film (Session 9) claustrofobico e perturbante e, piano piano, smarritosi negli stessi ingranaggi del suo cinema, in un gusto derivativo e sempre più autoriferito che ha trasformato ben presto l'autore statunitense in niente più che un buon mestierante; il regista perfetto, forse, per un film targato Netflix e per un'offerta horror spesso e volentieri ancora prigioniera di stilemi del passato, con tutti i luoghi comuni e le problematiche del caso.
Che quello del regista fosse un cinema chiuso in sé stesso e nei suoi riferimenti, d'altronde, si poteva già intuire sin dai tempi de L'uomo senza sonno, un cinema sempre e comunque giocato all'insegna dell'ambiguità tra realtà e allucinazione, con Hitchcock come (inarrivabile) nume tutelare e un meccanismo narrativo, tra manie complottistiche e colpi di scena, destinato a ripetersi fino allo sfinimento.
Non poteva che essere un'altra manifestazione di questo eterno ritorno, allora, Fractured, piccolo thriller ospedaliero dal sapore più che mai paranoico, che non solo riassume in sé temi, figure e costrutti ricorrenti dei film precedenti del regista, ma ne rappresenta uno sfacciato calco, la copia carbone perfetta di uno stesso, identico film archetipico. Un film fatto di traumi fisici ma anche, e soprattutto, mentali, come quelli di cui è vittima Ray (Sam Worthington), padre terrorizzato dall'eventualità di non saper proteggere la propria famiglia, di non essere all'altezza dell'eroe che i suoi cari vorrebbero che fosse. Riflessioni tutt'altro che banali (basti pensare a quello che ne ha fatto Ruben Östlund con Forza maggiore) che Anderson chiude però a forza in una confezione, dalla messa in scena all'estetica da home video, risaputa e fin troppo convenzionale, che sbandiera i suoi riferimenti (uno su tutti, Shutter Island) e i suoi temi più cari (la deriva psicofisica del middle class man, spesso e volentieri tormentato dal peso di un passato con cui non riesce a venire a patti), senza aggiungere niente di nuovo.
E se la nemmeno troppo velata critica al sistema sanitario americano avrebbe potuto colpire nel segno se indirizzata con più attenzione, certo non aiuta alla riuscita dell'operazione la scelta di Worthington come protagonista, in un ruolo forse troppo impegnativo per le sue corde e per quel volto granitico lontano anni luce dalle sfaccettature di un personaggio spezzato, costantemente in bilico tra sanità e follia, paranoia e senso di giustizia. Contrapposizioni insanabili all'interno delle quale si delinea il gioco di Anderson, intento, con la consueta padronanza di mezzi e spazi, a ribaltare, ancora una volta, prospettive e punti di vista, senza però accorgersi degli evidenti limiti di un meccanismo ormai prevedibile, punto di arrivo di un cinema e di una carriera che non hanno più niente da dire.