Breaths: Respiri nel Buio
Il falso documentario è la chiave per narrare la storia inventata di un incubo reale
Breaths: Respiri nel Buio di Antonio Gigante è un horror low budget dallo stile mockumentary girato nell’ormai lontano 2011. Da allora nessuno lo ha mai visto, se si eccettua un test screening risalente a maggio 2015. Un film fantasma al pari delle misteriose presenze di cui tratta. La storia infatti si presenta come un video-reportage di tre ricercatori universitari su un orfanotrofio abbandonato, dove anni prima perirono in un incendio sospetto una decina di bambini. Breaths parla di un argomento sempre attuale e scottante, quello dell’infanzia violata. Sulla carta affrontare un tema tipico della cronaca tramite il mockumentary, ovvero la finzione che mette in scena il realismo documentaristico, risulta una scelta azzeccata. Pur tuttavia il film non solo non mostra alcuna violenze sui bambini ma non ci sono nemmeno attori in tenera età. Le sevizie possono emergere unicamente dalle testimonianze, contenute nella prima mezz’ora di film, di adulti un tempo bambini. Gli intervistati si lasciano andare, con dovizia di particolari ma anche con severa dignità, ai racconti delle loro infanzie tormentate e brutalizzate. Il tema, in fase di sceneggiatura e di dialoghi, viene affrontato con serietà e in profondità, lontano da facili stereotipi e semplificazioni. Il parco attori è più che dignitoso e restituisce una certa decenza ad un corpus di dialoghi sicuramente impegnativo. Dopo un processo di accumulo delle testimonianze la storia si sposta sul luogo del delitto. Nella seconda parte del film Gigante incanala la narrazione verso topoi e tematiche più tipici dell’horror, tralasciando gli aspetti più drammatici e disturbanti riguardanti l’abuso sui minori. Ed è in questo cambio di registro, più votato all’azione e all’orrore, che Breaths: Respiri nel Buio perde gradualmente pregnanza e interesse. Mentre nella prima parte del film c’era un non banale ragionare su come la violenza entri a far parte della formazione della nostra società fin dalla tenera età, nella seconda parte sopravviene un totale smarrimento nelle banalità di un sottogenere fin troppo abusato.
Il perno centrale di questo sconosciuto lungometraggio salentino è la location, l’ex Ospedale Galateo di Lecce. L’edificio, risalente agli anni Trenta, verte in uno stato di abbandono da decenni ed è divenuto nel tempo meta di sette sataniche, tossicodipendenti, cani randagi e ratti per poi essere realmente avvolto dalle fiamme nel 2010. In definitiva la location ideale che non necessita di alcun intervento per inquietare, adattissima agli sviluppi della trama, sebbene di per sé non proprio originale. Di mockumentary statunitensi girati in luoghi similari ne esistono a decine e forse non sono mai stati così affascinanti e tetri come il Galateo. La scelta da parte di Gigante è stata quindi ottimale. Nonostante cioè Breaths è il tipico falso documentario girato con una certa decenza formale ma che non spaventa né inquieta lo spettatore. La scena in cui i tre ragazzi subiscono la prima aggressione all’interno dell’ex orfanotrofio è montata senza il benché minimo rispetto dei tempi necessari a creare la suspense. Altre sequenze che dovrebbero essere jump scares vengono risolte malamente, in modo sciatto. Nel finale, a causa della recitazione troppo sopra le righe di un attore, si aggiunge un effetto trash involontario che fino a quel momento era stato tenuto saldamente a bada. In definitiva, nonostante la splendida location, qualche sbadiglio lo fa venire complice anche l’eccessivo girovagare dei ricercatori tra stanze, scale e corridoi. Da elogiare invece la fotografia, livida e densa di ombre inquietanti, né troppo buia ma nemmeno troppo laccata. Sicuramente realistica, come deve essere in un mockumentary, ma con un tocco vagamente iperrealista che dona alla pellicola, in particolare in alcune sequenze nei corridoi, una patina di incubo da dimensione parallela che non guasta. La mano ferma del regista, pur non regalandoci momenti di paura nel senso classico, garantisce una certa fattura professionale al prodotto che spesso non si vede nell’universo dell’indie horror tricolore.