Byzantium

L'ennesimo dramma vampiresco per Neil Jordan si trasforma in un elegante sebbene imperfetto ritorno alle origini formali del suo cinema

Che il cinema di Neil Jordan negli ultimi anni abbia intrapreso un percorso espressivo e tematico a dir poco discontinuo, tra dissimulati scivoloni e sporadici guizzi inventivi, pare ben chiaro a chi, con classici come La moglie del soldato o Michael Collins ben in mente, si ritrova dinnanzi prodotti mediocri come i recenti Il buio nell’anima o Ondine – Il segreto del mare.

Sicuramente più inaspettato, sebbene lungi dall’essere una rivelazione o una rivalsa autoriale a tutti gli effetti, è l’altalenante fascino che a tratti esercita la sua ultima fatica, Byzantium, film d’amore, morte e solitudine nella quotidiana vita di una madre e una figlia alle prese con un tremendo segreto.

Clara e Eleanor (Gemma Arterton e Saoirse Ronan, entrambe notevoli) sono due revenants, due creature immortali che (soprav)vivono in un mondo ostile, tra ossessioni protettive e voglia di emancipazione, con la costante minaccia di essere trovate e uccise dai propri simili.

Jordan torna ai film di vampiri ridimensionando la portata, le suggestioni gotiche, il fascino monumentale che avevano fatto la grandezza e la fortuna di quel trionfo visivo che era Intervista col vampiro. Con lo sguardo rivolto al suo cinema più intimista piuttosto che ai fasti cupi e sognanti delle sue grandi produzioni, il regista irlandese, partendo dalla pièce teatrale A Vampire Story di Moira Buffini, costruisce un’opera che ha nelle atmosfere e nella delicatezza dello sguardo il suo maggiore punto di forza, un tocco timido e misurato che pareva perso dai tempi dei noir agrodolci delle origini.

Senza rinunciare agli usuali stravolgimenti narrativi, flashback e colpi di scena a rendere dinamica una vicenda sentimentale di affetti e amore filiale, Jordan pare guardare al suo primo cinema, ai tratti delicati e alle atmosfere oscure, degradate eppure calde delle sue storie di amore e perdizione. Come attraverso la Londra a luci rosse di Mona Lisa o i bar de La moglie del soldato, Jordan muove il suo sguardo, tra giochi di ombre e colori, per le stanze del fatiscente Hotel Byzantium, bordello e nascondiglio per qualcosa di innominabile e inenarrabile.

In una città costiera triste e autunnale, si giocano allora le esistenze degli ennesimi eroi jordiani, personaggi liminali, emarginati impegnati nell’ennesima lotta contro la propria natura, nell’inutile, fallimentare desiderio di essere altro da sé.

Immagine rimossa.

Tra Anne Rice e Ragazzi perduti, il noir e il thriller, Jordan mette in scena una storia di emancipazione e crescita, emarginazione e solitudine dove l’esigenza vitale e assoluta del racconto, della narrazione, si fa tema portante, strumento di riscatto e rivalsa, finendo col fare di Eleanor un personaggio ben più simile alla giovane protagonista del fantastico In compagnia dei lupi piuttosto che alla narrativamente prossima piccola vampira Claudia di Kirsten Dunst, in una favola nera che a una inevitabile prevedibilità accosta un sentire ancora peculiare.

Stemperando quella vena debordante e fastosa che aveva decretato il successo del vampiro Lestat e compagni, pur riscoprendone la suggestione in qualche scelta visivamente memorabile (le scene in costume, la cascata di sangue), Jordan, con il fascino dell’atmosfera e l’eleganza della messa in scena, dà vita a una storia che non reinventa un genere, che non ha la potenza deflagrante della novità, ma che eppure rimane capace di raccontare con occhio personale e inconfondibile l’ennesimo dramma di solitudini, eternità e dannazione.

Byzantium allora, lungi dall’essere un bel film, troppo vittima di una scrittura confusionaria, di dialoghi poco brillanti e di una trama a dir poco abusata, fatta di flashback rutilanti e personaggi non sempre a tutto tondo, riesce comunque a conservare una purezza e una dignità estetica di fondo. Nella vita appartata, nella latitanza di due figure dannate per amore, in fuga costante tra menzogne e un destino inevitabile, c’è la malinconia di un sentire che traspare in ogni scena, in ogni inquadratura, in ogni atmosfera crepuscolare.

Neil Jordan, forse, non è tornato, né di certo i vampiri sono stati sdoganati, emancipati dal loro immaginario ormai obsoleto, eppure qualcosa inevitabilmente si è mosso tra le pieghe di una storia prevedibile e i suoi dilemmi sull’immortalità.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 07/05/2015

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