Oltre all’auto fiction, il racconto autobiografico che eredita dal documentario una forte dose di credibilità (sto narrando cose vere, frutto della mia esperienza, il quoziente di verità è alto, dovete credere a questa parzialità), che ha raggiunto il vertice estremo dell’ “impudicizia” (rubiamo la definizione a Le Monde) nel film di Valeria Bruni Tedeschi, in concorso quel che più attira nell’anno 2013, l’ispirazione degli auteurs è la pena di morte, legittimata rispetto all’infanticidio, all’omicidio, a sfondo sessuale o di altro tipo, di un minore. Descrivete, con dovizia di particolari o con il più rigoroso riserbo formale, il peggior dei crimini concepibili (se vi fate un giro nelle carceri ne avrete conferma) e chiedete allo spettatore: e tu che faresti? La maggior parte dei paesi al mondo considerano che lo stato etico di diritto non può equipararsi, degradarsi a set mentali individuali, all’assassino. Dunque esclude la pena di morte: sarebbe una resa della comunità alla deviazione, spesso sperduta nel buio, di un singolo. La rivoluzione anti-psichatrica di Basaglia (riportare alla collettività e alle sue responsabilità sociali la cura della demenza infuriata, zona d’ombra razionalmente gestibile) non è diventata senso comune globalizzato. Cuba, la Cina, gli Stati Uniti e il Giappone ammettono la pena di morte. Qualcuno di questi paesi, anzi, reagisce all’escalation dei serial killer e dei gesti folli inconsulti diffondendo l’uso privato delle armi, meglio se ai minori, invece di autocriticare le parti sbagliate del proprio sistema sociale, della propria concezione del mondo. E dentro le democrazie c’è chi si sente sedotto sempre più irresistibilmente dal fanatismo e dal fondamentalismo che esige una giustizia sostanziale e non formale per chi mette in discussioni i principi fondativi della tradizione, islamica come cristiana come buddista.
I film di Nicholas Winding Refn (Danimarca) e di Takashi Miike (Giappone), hanno come punto di partenza l’assassinio a scopo sessuale di due ragazzine. Il primo Only God Forgives, già dal titolo ci immerge in una atmosfera esotica, da western all’italiana ‘normalizzato’. Set Bangkok. Che è tutto un programma di viaggi erotici organizzati dalle compagnie che hanno scovato un guizzo di profitti nella prostituzione clandestina. La Thailandia si è così conquistata una leadership poco invidiabile nell’immaginario collettivo, raddoppiato dal peso specifico assunto dal peccaminoso mercato della droga. E il film vampirizza il paese con grinta colonialista. Notte, luci artificiali, agguati d’ogni sorta cruenta, coltelli e spade volanti, spezzettamenti di arti, bordelli al neon, deambulazioni zombie, karaoke, arabesque formali che ordinano per ciascun personaggio una collocazione a intarsio dentro un viluppo di ombre e chiarori di leziosa calligrafia. Ora l’occhio, ora il naso, ora la bocca di ciascuno viene tagliato da un gioco luministico che non crea personaggi immersi in una atmosfera ‘noir’, sottolineando una stasi o un salto narrativo per far crescere la tensione, ma immergendo tutti i personaggi, considerati burattini, maschere (la boss della droga, i suoi sgherri, le vittime, i poliziotti…) in uno stesso acquario variopinto e a incastro intercambiabile, ma rassicurante, per quanti scempi vi si compiano, garanzia di un viaggio turistico ‘sicuro’ che vende quel che promette. Un’avventura tropicale in slow motion. Mostri wasp vi si aggirano nella metropoli tentacolare padroneggiando, anche con il ralenti, ogni spazio, dalla thai boxe con il suo sistema di scommesse, al giro della coca, alla sopraffazione sessuale più arrogante e devitalizzata. E’ il procedimento che in Drive aveva spogliato in chiave formalista uno dei grandi e laceranti drammi metropolitani della contemporaneità, Driver di Walter Hill. Refn, con il suo attore feticcio Ryan Gosling, campione della semplificazione gestuale, sempre alla ricerca di un’emozione radiante, qui esaspera il canone, rubacchiando a Wong Kar-wai la grana del tessuto visuale setoso e festosamente disegnata (merito o colpa di Larry Smith giocoliere delle luci). Poi la redenzione, certo causata dal senso di colpa che un calvinista estroverso come Refn non si esime dall’esibire. Visto che la triade di energumeni wasp composta da Julian il bello e Billy il bruto, e capitanata da mamma Crystal (una Kristin Scott Thomas sbiancata come Rita Hayworth) mostra, certo con la complicità della luna piena, il suo lato peggiore, la micro gang della droga viene facilmente stanata dal capo della polizia Chang, ex campione vero di thai boxe, e in più esasperante spadaccino, che con qualche trucco da infernale Quinlan (il film è dedicato al peso massimo del trance-movie, Jodorowsky), mette il sistema a posto. Quando il gioco si fa duro, i più corrotti (e coperti dal re) iniziano a giocare. Il trucco è semplice. Nella stanza della bambina stuprata e annichilita, in un bagno di sangue, con accanto il corpaccione ubriaco di Billy viene chiamato il padre dell’assassinata. “Ne faccia quello che vuole”. Il padre esegue. Julian vorrà vendicarsi e Chan, buon padre di famiglia, ottimo canterino dilettante, li distrugge tutti. L’onore thai è salvato. La condanna a morte viene così privatizzata. Un bel modo per tirarsi fuori dall’impaccio.
Molto più angosciante e ‘americano’, nel ritmo, nel genere (noir d’azione), nelle esplosioni spettacolari, nei raccordi, nell’organizzazione spaziale dell’immagine e nella sostanza conoscitiva e etica, il film di Takashi Miike, Shield of Straw, non a caso distribuito internazionalmente dalla Warner Bros. Un presunto giovane serial killer di bambine, Kiyomaru, viene fermato dalla polizia che lo dovrà trasferire nella non vicina Tokyo. Poco dopo lo zio multimiliardario dell’ultima vittima, il vecchio Ninakawa, claudicante come Everett Sloane, offre una taglia di 76 miliardi di euro a chi giustizierà Kiyomaru “in accordo con la polizia”. Un’inserzione che, uscita su tutti i quotidiani (in Giappone li leggono), rende particolarmente vulnerabili, uno “scudo di paglia” facilmente sfondabile, i quattro poliziotti “integerrimi” incaricati del trasferimento, non più via aerea (sarebbe facile organizzare un attentato), né via camion super scortato (assalito anch’esso), né un treno superveloce (e, come si vede, ancor più facilmente deragliabile) ma, a un certo punto, addirittura via taxi. Il problema sono non solo i cittadini, inermi, almeno i nipponici, ma i poliziotti (sottopagati) supersedotti dalla taglia, compreso qualche insospettabile ragazzo della scorta. Il viaggio seminerà talmente tante vittime, compresa una poliziotta di scorta onesta anche se ambiziosa, che ci si chiede, nel foro della coscienza, visto che il presunto colpevole dimostrerà con abbondanza di prove di essere stato davvero lui l’assassino, anzi un mostro degno di M, infatti continuano a prudergli “le mani” e il resto, e visto che poi sarà regolarmente condannato a morte da una corte “imparziale”, se non fosse stato meglio giustiziarlo immediatamente, a taglia promessa, invece di provocare tanto altro sangue, mettendo subito dentro anche Ninakawa per turbative all’ordine pubblico e corruzione…. E persino l’unico sbirro dotato di distintivo e morale, che sarebbe poi l’eroe del film perché consegna il colpevole, non si chiederà mai se è giusta o meno in sé la pena di morte (in particolare comminata a un giovane evidentemente fuori di senno) ma solo se è legittimo compiere il proprio dovere, e salvaguardare l’onore dello stato, nonostante sia circondato da ispettori e superiori corrotti e venduti. Si. E’ giusto. Il codice etico lo impone. La tradizione. Il bushido. Andiamo bene.