Song to Song
Di canzone in canzone, il Paradiso perduto è il fantasma dello sguardo: Terrence Malick arriva probabilmente all’ultimo capitolo di quell’enorme romanzo di formazione iniziato con The Tree of Life.
“Devo tornare e ricominciare da capo. Come un bambino.”
Eravamo rimasti al Cavaliere di coppe e alla sua perla, alle immagini che sognano la storia della Terra, dall’inizio del mondo fino alla fine dei tempi. Ora, quel grande romanzo filmico che parte da The Tree of Life (presentando tutti i prodromi già ne La sottile linea rossa e, soprattutto, in The New World), si arricchisce di una nuova costola che, con potenza disarmante, potrebbe essere la chiosa perfetta di una storia in fin dei conti piccola, intima, originaria. Una storia d’amore che muore e rinasce a ogni stacco di montaggio, che cade e si rialza, che si dissolve per poi ricominciare, come una versione che possiamo immaginare sempre diversa, ossessivamente variabile, destrutturabile all’infinito.
Terrence Malick filma la sua città, Austin. Ricerca la sua gente, i palazzi, i campi sconfinati un attimo fuori dalla metropoli. Si muove tra le persone, scende in strada, si ferma un istante sulle loro mani, su un piccolo gesto dove intercetta una singola particella di luce. Ogni cut dice già il mondo intero. Malick racconta, con una capacità di sintesi inimitabile, tragedie e delizie dell’essere un uomo. Ricerca più che mai l’impressione subitanea che segna un volto, il perturbante che s’insinua di immagine in immagine, di canzone in canzone. Nelle sue domande senza risposta, modella visioni segrete che persistono nella nostra mente, continuamente ritornanti, come un ritornello, un’idea fissa che scandaglia il quotidiano.
In Song to Song, Malick lascia che tutto sia: non c’è inizio, non c’è fine, solo la leggerezza del trasporto, il flusso errante del movimento. Si addentra nella scena musicale di Austin, in un andirivieni ondivago di festival rock, party, terrazze e finti splendori. Tutta questa magnificenza, tutta quest’opulenza si frantuma, pezzo dopo pezzo: la ricchezza architettonica, lo splendore kitsch dell’esterno rompe il cordone con i paesaggi interiori. Il legame è spezzato, abbiamo dimenticato le nostre prime immagini. Dobbiamo ritornare, ricercare, trovare la Perla, altrimenti ci estingueremo (in questo senso tornano alla mente le immagini mai viste del cinema herzoghiano, l’equazione immagine/cultura, uomo/immagine).
Il mondo è andato a rotoli diceva Sean Penn in The Tree of Life. I personaggi di Song to Song sono immersi appieno nella patina glamour di un incubo pornografico. Eppure una voce dentro di loro vede qualcosa di più, sente un mondo altro, lontano, richiamato da una coreografia di uccelli in volo, dal sorriso di un passante che cammina in strada: il Paradiso perduto è il fantasma dello sguardo, un lampo che balugina tra le inquadrature, alla stregua di un fuoco d’artificio, di una fata morgana. Lo vorremmo acchiappare, ma appena si palesa è già scomparso.
La dialettica natura-grazia, terra-cielo, morte-rinascita si fa ponte tra le immagini, desiderio infinito di un ritorno. Tutto qui, commenta Faye (Rooney Mara), vero sguardo del film. Lei, smarrita in uno specchio deforme (e deformante, come il fish-eye, le GoPro e così via), abbacinata dal potere suadente delle superfici, è il centro di un triangolo amoroso, come ne I giorni del cielo e in The New World. Da una parte c’è il musicista BV (Ryan Gosling), il cuore puro, semplice, idealista; dall’altra il produttore Cook (Michael Fassbender), edonista spietato e ricchissimo, demone contemporaneo che perpetua il peccato originale (in Malick, che è sempre stato un apocalittico, di natura sessuale). Eppure il sesso, come la morte (e in questo è davvero baziniano), non può essere rappresentato, ma solo simulato. C’è tantissimo sesso in Song to Song, ma è sempre ciò che precede o segue il coito, mai la sua rappresentazione. Lo sguardo aereo di Malick si confronta, ancora di più che in Knight of Cups, con il corpo. Nudo, femminile, mercificato o graziato, sempre detentore di una scintilla di luce pura. Anche quando non rimangono che rovine.
Cook, si può dire chiaramente, è l’incarnazione del Male all’interno di Song to Song (alla mente torna subito Antonio Banderas in Knight of Cups). Ma Malick, che non è il manicheo che molti pensano, sa che anche il diavolo può essere colpito al cuore. Che anche il Male soffre e ha il suo tallone d’Achille. Se lui è il Re e il mondo è il suo regno, se dona il miele del peccato spacciandolo per seme della vita, egli è la scimmia di Dio, suo epigono dionisiaco. Il suo pasto quotidiano è l’invidia. Durante il viaggio in Messico (parentesi di insolita, straordinaria leggerezza), invidia l’amore puro di Faye e BV, percepisce la sua mancanza, la sua privazione di bene. La sua infinita, eterna solitudine. La tragedia di Cook è non essere capace di amare. Come un Casanova contemporaneo, è un angelo caduto che vive su di sé il dramma di una scissione.
Tu non sai chi sono, afferma. Malick, che non può dire il Diavolo, ne ricerca il passato nel cinema stesso. Proprio lui, che è un regista fuori da qualsiasi storia del cinema, si serve del cinema per architettare il Mito. Compaiono i frammenti violentissimi di un vecchio film muto, Ménilmontant, e con il cinema – attraverso il cinema – l’autore apre le porte di un intero modo di sentire e di vedere, di un intero mondo di disvalori. Ed è proprio così che entra in scena il personaggio di Rhonda (Natalie Portman), che il triangolo si trasforma in quadrato (è sempre una questione di forme che si reinventano, che cercano altri angoli, nuove figure: nessuna forma può rimanere immobile). Lei, novella Cenerentola in un mondo di squali, cameriera sedotta dal frutto proibito, è l’altra anima femminile del film. L’altra direzione. Cook compra una casa a sua madre, risolve i problemi economici della donna, ma non può, non riesce ad amarla davvero.
Ed ecco allora uno squarcio, una ferita impossibile da risanare.
Torna il fuori-campo di The Tree of Life, il suicidio di un fratello, ossessivamente reiterato di film in film, come se si trattasse di un’unica grande storia autobiografica. Percepiamo la morte di Rhonda nelle urla taciute della madre (Holly Hunter) che vaga per strada come Jessica Chastain vagava nei boschi, in preda a un dolore inestinguibile. La sentiamo nel primo piano sfatto, derelitto di Cook il perdente, di Cook il vampiro che, come Nosferatu, porta il fardello dell’eternità. Nel mondo senza legge e senza gravità, il suicidio ferisce e annienta il demonio, lo fa sentire umano, troppo umano. Qualsiasi facile dualismo salta in aria: Cook sparisce dal film, si dissolve, proprio quando guarda in faccia la morte e la teme, come un angelo di Dio decaduto.
I protagonisti di Song to Song sono quattro, ma forse otto e forse molti di più: tracciano le continue ipotesi di nuove vite, nuovi inizi, nuove possibilità (basti pensare al personaggio di Cate Blanchett che pare lo stesso di Knight of Cups). Song to Song è tutto qui: nella riconfigurazione continua di ipotesi possibili, nello sliding doors che sembra unire tutte le esistenze. Viene quasi il dubbio che non siano quattro personaggi, non due, ma uno. Come in To the Wonder, come in The New World che ripetono, fino allo struggimento, che quest’amore lascia da parte ogni estraneità, ogni alterità, per fonderci in un unico corpo, in un’unica grande anima. Ecco come tutti i piani di Song to Song, tutte le canzoni, tutte le comparse, perfino Patti Smith, riconducono irrimediabilmente al personaggio di Faye. Tutte queste donne sono le facce di un’unica donna. Sono l’incarnazione di un sentimento che può prendere strade diverse: la via della morte, la via battesimale del ritorno. La prima è tutta nel personaggio di Rhonda, in questa disperata attrazione verso il nulla, nel suicidio come unica ipotesi di libertà (bisognerebbe leggere ancora Emil Cioran con cui si potrebbe un giorno rileggere tutto il cinema di Malick). La seconda è la via del figliol prodigo, del perdono, della santità e della nuova vita (non per niente una delle ultime immagini del film rimanda esplicitamente al battesimo, metafora cristologica per eccellenza, cuore pulsante della dialettica morte-rinascita).
Faye è l’ultima lettera, quella scritta con il cuore, di questa grande storia sulla compassione iniziata con The Tree of Life. Lei si scioglie in un amore che è un fiume in piena, impossibile da prosciugare.
Malick, che ha costruito un cinema di ellissi e salti spaziali, destruttura radicalmente il tempo del racconto. Viene il sospetto che tutto il finale non sia un magnifico ricordo o, ancora di più, il miraggio gentile di una nuova vita. Ecco il vero Voyage of Time. Una realtà altra (Lassù vive Dio), ulteriore, fuori dal tempo, quasi come la spiaggia che conclude The Tree of Life. Il ritorno alla Terra, ai campi, alla vita semplice. Ci si chiede, allora, se tutto questo finale non sia un meraviglioso what if, un’altra versione della storia. Se tutto il film sembra un sogno, una rapsodia priva di gravità (e in questo l’immagine dei corpi che fluttuano sull’aereo è la più emblematica), il finale sembra alludere a quel tempo prima del tempo, a quella parola prima della parola. Lo stesso luogo, lo stesso altrove, dove le voci fuoricampo (spesso al passato) raccontano una storia faccia a faccia, senza più nessuno specchio deforme, senza più nessun fish-eye. In questa storia la Madre, Cate Blanchett, narra l’origine dell’Universo e un meteorite si schianta contro la Terra alla morte di un ragazzo. Una donna beve gocce di rugiada, il suo volto s’illumina di meraviglia mentre una famiglia si riunisce oltre i limiti del tempo e dello spazio.
In Faye, infatti, nelle sue movenze ora leggere, ora goffe, ora suadenti, ora timide, riscopriamo la tenerezza come vero e proprio atto morale. Nei suoi occhi di bambina, ritroviamo il volto di quella ragazza che si prostituisce dopo la morte del proprio compagno, il viso ruvido di un’anziana che cammina per le strade messicane, ma anche l’estasi di Marina alla vista di Mont Saint Michel…nel cuore di ogni singolo uomo c’è già l’armonia e la caduta. Così comprendiamo come, in fondo, la storia di Faye sia la stessa di tutti i protagonisti di Malick a partire dal lontano Badlands: un unico, grande romanzo di formazione dove, immersi nei mali del mondo (che siano le superfici del contemporaneo o la seconda guerra mondiale non fa differenza), i personaggi devono reimparare a vedere. I loro occhi sono le loro stesse mani, sempre impegnate a sfiorare, sentire quello che le circonda. Come dei ciechi alla ricerca del loro primo amore. Toccare è già credere.
Tutto qui: Song to Song.
Post scriptum. Perdonatemi qualche ultima nota estrapolata, per eccesso d’amore, dal mare di appunti. Una cosa sul rock, che pare il vero e proprio collante situazionale del film, una sulla musica classica come ipotesi di anamnesi, di un ricordo che risale, interamente, il tempo. Rimangono frammenti di una storia d’amore, piccoli istanti dove il passato, il presente e il futuro si riuniscono nel nero che separa le immagini. Così il b-side di un film su delle star che, con spontaneità disarmante, agiscono e reagiscono alla macchina da presa, diventa il racconto del figlio perduto e poi ritrovato. La parabola. Son to Son prima ancora di Song to Song. E Terrence Malick, a dispetto di quello che in tanti, troppi continuano a sostenere, rimane uno dei più grandi narratori viventi, anche solo e semplicemente per la fede straziante (e mai cieca) che ripone nel cinema. Del resto riesce nell’unica cosa che poi conta davvero: emozionare.