Padrone dove sei
Un sabotaggio iconoclasta e nostalgicamente rock nella carne del sesso perduto e mai dimenticato
“...and every step I take, takes me further from heaven...” Roxy Music, In Every Dream Home a Heartache
Lontano dal paradiso, io ciò che resta del paradiso. In un cielo decadente, in disfacimenti della memoria tattile tra luminose evanescenze di carne. Luoghi di perduti ricordi sessuali, carne, sperma e memoria. Trascinati dai desideri perduti, schiaffeggiati dal padrone più sadico, indifferente e prepotente: il sesso ricordato, immaginato, rimpianto e il suo desiderio inconsumabile, suo più spietato aguzzino. In naufragi e nubrifagi di parole scabrose, (in)difesi sotto tettoie di enunciati troppo strette per le immagini, gabbie di faraday che portano nomi importanti come Bataille, Derrida, Klossowski. Lo sguardo sempre in procinto di sfaldare la pelle per entrare nella carne, per diventare esso stesso carne, godimento, disfacimento. Voyeurismo dell’impulso sessuale scopico, pulsione irrefrenabile che Schirinzi frammenta in immagini ingrandite di frammenti visivi che schizzano tra un taglio e l’altro, fuoriuscendo da ogni fessura del découpage in ingrandimenti di pulsioni erotiche. E se la Madeleine proustiana non fosse solamente un pasticcino commestibile? E se riuscisse comunque a mantenerne la sua funzione, il suo tramite olfattivo, tattile, acustico, continuando a esercitare la sua funzione di soglia cristallizzandosi in immagine-memoria visiva, fulminante, del sesso perduto? E se l’occhio di Bataille prima di diventare uovo fosse stata l’immagine dell’ingallamento?
In un perpetuo ristabilirsi di desideri rimossi, fuggiti, scabrosi (rinconsa a ritroso di quell’interscambiabilità barthesiana definita nella sua Metafora dell’occhio) fino all’inizio primordiale, basica ossessione verso il sesso tra gli intrecci del desiderio masturbatorio, epifanico sguardo disfacente e mortifero: cinema, nella sua più primaria accezione di meccanismo scopico di resistenza alla morte, all’oblio, alla schiavitù sessuale dell’Eros. Referenziale, scabroso, deviato, tattile e tangibile quanto la resistenza dei polpastrelli sui grumi fotografici di un’opera del Bernini. I tre anti-protagonisti di Schirinzi sono fantasmi che vivono di ricordi perduti, corpi persi nelle location abbandonate, scie di carne luminescente che nell’immagine (e nell’immaginazione) sessuale trovano l’unico appiglio di restistenza alla loro traslucida esistenza. Sono fasci di luce in sofferenza, delay di una struggente ballata rock in procinto di perdersi nei propri riverberi, pronti a svanire se incapaci di trovare densità nella loro sessualità condensata, in quell’erotismo che s’incrosta dando loro superficie epidermica (fotografica, audiovisiva) sulla quale (re)esistere.
Sarebbe ben immaginabile leggere nelle pagine de La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock il nome di Carlo Michele Schirinzi, posizionato lì tra Carlo Olgiati e Armando Aprile, tra il matabolismo olgiatiano e la fantasmatica esistenza dell’effimero utopista. Il soffio iconoclasta di un solitario, pronto a sgretolare i territori (del suo Sud), la sacralità dell’immaginario iconico e le pagane geografie del corpo desiderante. Padrone dove sei? Dov’è il vettore del moto? Il motore del corpo negli ingranaggi della libido? Un film che rimane negli occhi, un film di tutti e per pochi, che denuda lo sguardo lasciadoci indifesi, nudi e prostrati alla nostra più grande ossessione ed estasi.