Castro
Castro: una palazzina occupata, una comunità multietnica, un tentativo di resistenza nel racconto essenziale e intenso di Paolo Civati
Nel quartiere di San Giovanni a Roma, Castro è una palazzina occupata, una comunità multietnica, un tentativo ostinato e disperato di resistenza non propriamente politica, ma piuttosto umana ed esistenziale. In principio era una scuola, e ora aule e corridoi sono diventate un rifugio – provvisorio e spesso inadeguato – per circa quaranta famiglie. Fuori, i muri scrostati, un cortile malmesso dove giocare a pallone, un quadrato di prato sporco stretto tra le case e il cielo grigio. Ma anche un enorme terrazzo, all’ultimo piano, per guardare l’orizzonte lontanissimo e sognare un mondo diverso. I desideri condivisi dagli inquilini di Castro sono semplici e trasparenti eppure irraggiungibili e inafferrabili come chimere: un lavoro, un futuro che non sia solo desolazione, soprattutto una casa. Perché Castro, dopo dodici anni, deve essere definitivamente sgomberato, e quindi coppie, anziani e famiglie con bambini attendono - sospesi nel limbo della burocrazia capitolina – di sapere se e quando verrà loro assegnato un altro posto dove vivere. Il regista Paolo Civati, nel suo bel documentario premiato al Festival dei Popoli, ne raccoglie i pensieri e le parole, ne sonda il dolore, le speranze, le aspettative, i rimorsi. Ne racconta la serrata lotta quotidiana, silenziosa, estenuante.
Claudio è in libertà vigilata, e assieme alla compagna Deborah progetta un futuro forse lontano dall’Italia, mentre prova a ricucire i legami spezzati con la sua famiglia, tra l’Africa e Roma. Sara, che è ancora una bambina, si guarda nello specchio e si immagina madre, con una casa – finalmente – tutta sua e grande soprattutto, per poter ospitare tutti i suoi parenti. Ma c’è anche chi ha perso il lavoro, e con questo anche la voglia di alzarsi dal letto al mattino. C’è chi lustra ossessivamente i pochi oggetti racchiusi tra le quattro mura affinché queste stanze malandate sembrino davvero una “casa”. C’è chi sopporta, oltre a quello della precarietà, anche il peso degli anni e della malattia. Percorsi e storie diverse che si incrociano tutti nel medesimo punto: l’esclusione, l’incertezza, la deriva, imputabili non agli inquilini di Castro che – come tanti altri – le subiscono, ma a un Paese disfunzionale, a una società disgregante, a una burocrazia ridicola.
Quella di Civati è una regia morbida, discreta, profondamente umana ed empatica, volta a restituire la dignità laddove è stata offesa. Castro è una poesia fatta di parole consuete, usuali, che qui tuttavia sembrano ritrovare il loro senso più vero ed esatto, è un film che si muove con la dolcezza di un mare placido, senza scossoni né strappi, ma che in ultimo si imprime con intensità e vividezza nel sentire dello spettatore, traboccando costantemente oltre i limiti dell’inquadratura non solo in quanto “cinema del reale”, non tanto per cosa mostra ma soprattutto per come lo mostra. Civati - che ha alle spalle un percorso di attore e regista teatrale - alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa regala al cinema italiano un altro di quei piccoli preziosi gioielli che spesso rischiano di passare inosservati (per i limiti del sistema distributivo e/o per la loro programmatica irriducibilità alle tendenze del cinema mainstream) e che proprio per questo è particolarmente importante custodire e promuovere: nessun vezzo stilistico e nessuna retorica, un cinema nudo e crudo che però non fa mai della durezza una bandiera ma anzi, si adopera – riuscendoci appieno – a stemperare con sguardo solidale e partecipe amarezze e disincanti.