C'era una volta la terra
Ilaria Jovine e Roberto Mariotti si lanciano nel racconto (e nel rimpianto) della forma più pura e incontaminata dell’essere umano, lontana dalla Storia e da qualsiasi sovrastruttura moderna
Lo spunto per raccontare il Molise di Francesco Jovine, come sineddoche di tutto il Sud Italia, è tanto semplice quanto inaspettatamente interessante: l’arretratezza in ogni campo, la figura centrale del contadino, le feste patronali, le disastrose conseguenze (dimenticate dalle Stato) di alluvioni e terremoti, i fenomeni migratori di inizio secolo e quelli contemporanei, sono presentati da Ilaria Jovine, nipote del giornalista e scrittore, e da Roberto Mariotti a partire e attraverso il protagonismo assoluto della terra, eterna compagna, figlia e madre di un popolo stanco ma tutt’altro che rassegnato.
Jovine dedicò alla vita rurale della sua regione numerosi articoli e reportage tra il 1940 e il 1950 ed è proprio da questi scritti che i due registi estrapolano le parole recitate da Neri Marcorè, voce narrante di C’era una volta la terra. Chi è alla ricerca di materiali inediti che raccontino la fenomenologia delle piccole comunità meridionali rimarrà deluso: le riprese fanno da sfondo al testo aggiungendo poco o nulla al nostro immaginario. La Jovine e Mariotti, più che altro, puntano alla completezza e all’esaustività della diegesi di ciò che ci aspettiamo di vedere e sentire in quelle zone, cominciando con la memoria di un universo che prima e dopo la seconda mondiale era lontano dalla Storia e che adesso, se non fosse per una presenza straniera destinata a godere dell’ospitalità tipica dei piccoli centri, sembra perpetrare il ruolo di comparsa nello scenario italiano.
Siamo di fronte a un documentario che mette in relazione la poesia e il mistero della germinazione e dei campi da coltivare come fonte primaria di sostentamento con i punti cardinali del Novecento quali il Comunismo, la lotta di classe, l’ingerenza dello stato nell’economia contadina, i residui mitici e animisti della cultura popolare e infine i flussi migratori, che negli anni in cui scriveva Jovine partivano alla volta dell’America e che oggi riempiono le cronache e la disinformazione. I paesini e i paesaggi molisani al centro delle sequenze diventano così non solo una metafora di tutto il meridione, ma anche e soprattutto dell’anima e del corpo dell’essere umano inteso nella sua forma più primitiva, anarchica, antieconomica e in simbiosi con la natura e suoi ritmi immutabili. In questo senso, l’uomo al centro della riflessione sembra essere addirittura quello precedente alla rivoluzione industriale, e quindi prima ancora dei concetti stessi di denaro e salario. Il pericolo di incorrere nella nostalgia o di idealizzare il passato viene però, sin da subito, scongiurato dal tono fiabesco delle parole dello scrittore, coadiuvate da un altrettanto suggestiva colonna sonora originale di Giuseppe Moffa e quindi dalla considerazione (speranza?) che i vincoli e gli echi lontani di un mondo in continua evoluzione difficilmente potranno sostituire le radici profonde di tradizioni millenarie.