Charley Thompson
Andrew Haigh e la sua America: una terra di paesaggi interiori e struggimenti dove riscoprire il sentimento del tempo.
Con Andrew Haigh è sempre una questione di tenerezza.
In punta di piedi, con lo sguardo delicato di chi sente e ama i propri personaggi, il cineasta inglese è interessato all’uomo, ai suoi turbamenti, alle esitazioni e, soprattutto, alle sconfitte. All’esperienza, in tutte le sfaccettature e declinazioni possibili. Ciò che ci piace del suo cinema è la totale adesione nei confronti dei personaggi che racconta: il rispetto, l’amore, l’empatia. E, ovviamente, il senso del tempo. I personaggi di Haigh chiedono solo di essere amati, ma hanno paura: paura del vuoto, come in Weekend. Paura di un ricordo che può insinuarsi tra le pieghe di una relazione, come in 45 anni.
Il fantasma del passato, l’ossessione di essere congelati in un eterno presente, torna sempre alla ribalta. Charley Thompson si configura come la naturale evoluzione della carriera di Haigh, in totale soluzione di continuità con i film precedenti. Certo, qui gli spazi si fanno sterminati, la strada diviene il regno stesso delle possibilità, ma, ancora una volta, è il sentimento del tempo a innervare il film. Haigh scopre l’America e ne rivive in chiave intima, quasi privata, tutti i miti, le speranze, le disillusioni. Fa di questa enorme, gigantesca terra il regno del cinema per eccellenza, fondendolo però con uno sguardo che scavalca qualsiasi citazione cinefila, qualsiasi gioco di rimandi o facili assonanze.
L’America è tutta dentro il giovane Charley Thompson. È il suo inconscio.
Haigh, infatti, non realizza un film americano, ma una ballata tutta sua che ha il respiro melanconico della dissolvenza incrociata. Utilizza i codici del road-movie per farne un’esperienza tutta interiore, un romanzo di formazione che richiede un confronto continuo. Per Haigh si tratta di accostarsi anzitutto ad un immaginario che gli consenta di portare agli estremi il discorso dei film precedenti. E quest’immaginario è appunto l’America come terra di confine, ripresa con eco e partecipazione steinbeckiane. Quello stesso paese che pare un mondo fuori dal mondo, intriso di violenza e di squallore, ma anche di sogni, speranze e di amore. L’America di Haigh forse la conosciamo eppure ci pare di incontrarla per la prima volta: le lande desolate, il mito della Frontiera, i crepuscoli delle terre solitarie diventano paesaggi interiori. Un intero paese si dissolve all’interno degli occhi di un ragazzo, novello viaggiatore alla ricerca di qualcuno da amare. Non c’è paesaggio che non dica il personaggio, che non rifletta il suo cuore, che non sia diretta emanazione di Charley Thompson. Come in una ballata sospesa che fa del tempo uno stato d’animo, una qualità interna. Charley Thompson è un film attento a ogni singolo respiro del suo eroe, proprio per questo il gesto filmico di Haigh ci commuove in tutta la sua straziante umanità. Che sia un puntino nello spazio o che occupi l’intera inquadratura, Charley Thompson è il film stesso.
A ripensarci, Charley Thompson somiglia a quel momento preciso in cui il giovane viaggiatore comprende di non poter più tornare indietro, che la strada è irreversibile e spietata. E allora il film entra in una magnifica apnea. Nella fuga di quest’orfano dal cuore puro, ritroviamo l’idea centrale della cura: salvare un cavallo dalla morte certa, farne un fratello, un amico, un amante. Quello stesso cavallo che Charley si rifiuta di cavalcare perché lo considera alla sua pari. Haigh non ha bisogno di aggiungere, di dire nulla, lascia che sia lo spazio a parlare, lascia che sia il tempo a consumare l’inquadratura. Non gli interessa la psicologia dello sconfitto, ma il motore stesso della sconfitta. Il cavallo allora è la traccia cinematografica, il resto del west, il residuo dei Padri, il simbolo dissolto del cinema americano che fu. Resto che, traumaticamente, sparisce dal film, come a ribadire che qui non si tracciano ponti, non c’è una storia del cinema da guardare con reverenza ed ammirazione, ma solo un ragazzo e una strada: l’operazione cinefila finisce lì e subito il film entra nel trauma di questa perdita. Deraglia, affonda nella solitudine, nel silenzio e nell’oscurità, si sporca, soffre senza piagnucolare, per poi poter esplodere emotivamente al momento dell’incontro finale con la zia.
Inoltre c’è un istante magnifico che vale la pena almeno citare: quando Charley parla con quella ragazza grassa che non fa nulla per difendere la propria dignità. Poche battute, forse due sguardi, non serve altro da aggiungere. Già sappiamo tutto, sebbene non si dica (quasi) niente.
Proprio per questo, Charley Thompson non può che essere un film che continua. Quasi come se Andrew Haigh avesse trovato il suo Antoine Doinel, come testimonia il finale stesso. Prima dei titoli di coda cerchiamo disperatamente lo sguardo in macchina del protagonista da congelare e conservare, ma questo sguardo non c’è, non arriva mai. Charley gira su se stesso, forse un po’ meno spaurito, eppure è ancora disperso. Siamo noi a doverlo continuare a seguire, a immaginare una nuova vita, una nuova strada, una nuova America.