Cinema, storia e immaginario della Shoah. Una conversazione con Edgar Reitz
Abbiamo incontrato il regista dell'epopea Heimat, per parlare del rapporto tra cinema, identità e memoria storica.
A partire dal paradigma dell’irrapresentabilità di Adorno, fino alla nascita di un vero e proprio genere denominato Holocaust film, il cinema mondiale ha tentato in vari modi di affrontare il trauma storico della Shoah. Heimat, monumentale opera in più capitoli del regista tedesco Edgar Reitz, ponendosi nel limbo tra cinema di fiction e veridicità documentaria ci suscita pertanto un interesse particolare. Raccontando l’epopea storica di una famiglia tedesca in un contesto rurale, infatti, il tema della Shoah non può comparire se non in modo indiretto, proprio perché nessuno dei protagonisti l’ha vissuta direttamente. Il racconto, così, si “limita” a portare a galla i cortocircuiti generati dalla discrepanza tra quotidianità e memoria. Di qui, Edgar Reitz non rappresenta ciò che non è ricordato, bensì “presenta” e racconta, attraverso l’adozione di precisi accorgimenti retorici, le sfumature dei meccanismi mnemonici di rimozione propri di un intero popolo. Abbiamo quindi deciso di interpellare l’autore stesso, che si è concesso gentilmente alle nostre domande, a proposito del legame tra questa produzione artistica e la sua formazione identitaria nella Germania del dopoguerra. Per l’organizzazione dell’intervista, realizzata il 29 ottobre 2010 e qui pubblicata integralmente per la prima volta, ci preme ringraziare in particolar modo Vanessa Roghi, Alessandra Tantillo e Claudia Papaleo.
Proviamo a dimenticare per un momento l’Edgar Reitz regista e pensiamo al Reitz testimone. Quali sono le immagini sulle quali lei si è formato nella Germania post-nazista attraverso la scuola, il cinema e la televisione?
Nella Germania degli anni trenta le cose erano molto diverse. Quando ero piccolo esistevano solo i cineteatri e unicamente nella capitale, mentre io vivevo in un piccolo villaggio di periferia. In ogni caso ricordo che mia madre adorava il cinema e, per sua fortuna, ebbe la possibilità di vedere tutti i film che venivano proiettati in quel periodo, insieme ai grandi attori che vi recitavano e che lei amava molto. In quelle storie, però, non c’era nulla di politico, niente che riguardasse la storia o la guerra.
Penso che l’idea del governo nazista fosse unicamente quella dell’intrattenimento, non importava se quello che passava sullo schermo avesse o meno dei meriti artistici. L’importante era sviare la mente delle persone. Del conflitto veniva mostrato solo ciò che si poteva conoscere. Ad esempio esisteva una sorta di serie documentaristica intitolata Deutsche Wochenschau – il principale cinegiornale tedesco (nda) – con puntate che duravano cinque, massimo dieci minuti, e in cui veniva celebrata la vittoria tedesca facendo scorrere immagini di soldati accompagnate al suono della musica classica. C’è da dire che a quei tempi io avevo più o meno dieci anni, e che quelle erano proiezioni riservate agli adulti.
Nonostante questo il cinema mi aveva sempre affascinato, tanto che per Natale i miei genitori decisero di regalarmi una cineproiettore Purtroppo in casa non possedevamo neanche un film, ma alla fine ebbi fortuna. Allora avevo un amico imparentato con un operatore cinematografico che lavorava in un cineteatro. Quando una pellicola si danneggiava lui mi permetteva di usarla come volevo, e così, con le immagini di repertorio che riuscii ad accumulare, potei fare dei montaggi miei. Si vedeva un po’ di tutto, i carri armati sul fronte, le facce delle stelle del cinema, oppure i cartoni animati. Allora i film di Walt Disney erano amati da tutti. Nessuno sapeva che venissero dall’America, e a pensarci, il fatto che arrivassero in Germania nonostante il conflitto, può essere bizzarro.
Anche Il primo lungometraggio che vidi durante la guerra era un prodotto americano. S’intitolava “The Jungle Princess” – film del 1936 di Wilhelm Thiele (nda) – e il ruolo della protagonista era interpretato da una bambina di cinque anni. Ci andai con mia zia mentre ci trovavamo a Bochum, una città dell’area industriale del paese. Si trattava di un fatto incredibile: le persone stavano morendo, la guerra distruggeva ogni cosa, e contrariamente a tutto questo, una piccola rosa in mezzo alla giungla. Tre anni fa ne discussi con un ricercatore dell’università di Bochum. Mi aveva scritto perché si stava occupando di un libro sulle prime esperienze cinematografiche di alcuni registi. Gli dissi di quel giorno ricordando qualche dettaglio. Ad esempio che ero seduto su una balconata, che lo schermo era poco più in basso, e che oltre a me c’era molta altra gente. Inizialmente non poteva credere a quello che gli stavo dicendo, ma poi cominciò a recuperare informazioni aiutandosi con quanto gli avevo raccontato. Alla fine mi spedì il dvd del film e riuscì a risalire alla data esatta della proiezione, che avvenne nel pomeriggio e soltanto una volta.
Quanto sono presenti le immagini della Shoah nella sua educazione e formazione e come influiscono sulla sua esigenza di raccontare la storia dell’identità nazionale tedesca?
Quando la guerra finì, nel 1945, avevo dodici anni e in quel momento non c’era spazio per il cinema. La popolazione era affamata, non c’era nulla da mangiare. Anche la radio era assente, a eccezione dei programmi della AFN per i soldati americani. Questa era l’unica trasmissione che potevamo ascoltare. Poi però, pian piano, col passare del tempo, abbiamo iniziato a confrontarci con le immagini, con le prime proiezioni che raccontavano dei campi di concentramento. Abbiamo visto i volti emaciati, i corpi dei sopravvissuti, e questo, nella mia mente, produsse un irritante misto di impressioni. Il fatto è che potevamo osservare con i nostri occhi le città distrutte, le rovine e allo stesso tempo i soldati tedeschi che tornavano dal fronte con l’ aspetto di chi tornava dai campi di prigionia. Quelle non erano certamente le scene che preferivo, ma il cinema mi interessava, e il cinema includeva anche questo.
Negli anni ’50 il paese era impegnato nella ricostruzione, e io mi iscrissi all’università dove mi dedicai allo studio del cinema. Questo per me cambiò tutto, perché a partire da quel momento cominciai ad avvicinarmi alle cose con un approccio intellettuale, e quindi a vederle in modo diverso. Capii che esisteva una contraddizione rispetto al mondo per come lo avevamo conosciuto attraverso i nostri occhi, attraverso i film, e il mondo per come era realmente. Mi resi conto che per andare oltre avremmo dovuto considerare la situazione e analizzare le nostre vite.
A tal proposito credo non si debba trascurare un fatto. L’immagine limitata che il governo nazista ci aveva offerto di ciò che esisteva fuori dalla Germania, stimolò la mia generazione a volerne sapere di più. Così molti di noi si interessarono ai film italiani, francesi, statunitensi, e più tardi anche a quelli giapponesi e sudamericani. Per quanto riguarda me, quello che mi premeva di più era esplorare il cinema italiano, in particolare il Neorealismo. Penso di aver visto praticamente tutto: Rossellini, De Dica, etc. Credo che le loro storie abbiano parlato per la prima volta di persone e situazioni reali. Si trattava di qualcosa che non potevi trovare in nessun’altra industria cinematografica.
I film neorealisti in Italia furono ferocemente combattuti dalla censura cinematografica della Democrazia Cristiana. In che modo in Germania avvenne la ricezione di queste pellicole?
In Italia il Neorealismo esisteva già prima della guerra. E’ vero, anche noi avevamo un’industria cinematografica, e gli italiani hanno potuto vedere i film prodotti dall’UFA, come i tedeschi quelli di Cinecittà. Ma i registi come Rossellini riuscirono a girare questi film a caldo, raccontando le vicende degli italiani immediatamente dopo il conflitto. Non si può dire lo stesso della Germania. Da noi tutto ciò accadde molto più tardi, e partendo da un punto di vista differente. Finita la guerra, l’industria cinematografica tedesca cercava di non parlare del passato recente, del senso di colpa. Andava tutto sotto il tappeto. Così per me, e per i ragazzi della mia età, il Neorealismo fu veramente l’inizio di una nuova esperienza. Grazie a quell’esempio abbiamo cercato di metterci al lavoro, di fare qualcosa di nostro, ma ci sono voluti dodici, quindici anni per farcela.
In Heimat lei sceglie di non far mai vedere immagini della Shoah, che però compare in modo indiretto, mentre come estremo opposto Margarethe Von Trotta in Anni di piombo mostra addirittura dei ragazzi costretti a scuola ad assistere alle immagini di Notte e nebbia di Alain Resnais. Partendo dal presupposto che non basta mostrare le immagini per elaborare un trauma storico, in quale modo la Germania degli anni ’50 affronta visivamente il rapporto con la Shoah?
Credo che un grosso problema risiedesse nel peso dovuto al senso di colpa. Nessuno riusciva a parlarne e si cercava di risolvere il problema provando a dimenticare. Dimenticare, questa era l’idea di tutti. Inoltre molte famiglie non poterono riabbracciare i cari partiti per il fronte, o lo fecero molto tempo dopo. Io stesso non vidi mio padre per anni, e come me, tutti i ragazzi che conoscevo vivevano con le loro madri e le loro sorelle. I soldati che rimpatriavano dai campi di prigionia sei, dieci anni dopo la guerra, avevano un’aria strana. Non riuscivano a riconoscere i luoghi in cui erano cresciuti, tutto quello che ricordavano era andato distrutto. Si sentivano svuotati. Non avresti potuto domandargli niente, perché non avrebbero saputo dove trovare le risposte. Erano finiti. Tra queste persone ci fu anche chi si impegnò per ricostruire il cinema tedesco, ma si trattò solo di qualche eccezione. La maggior parte di esse cercò di continuare la sua vita per come era prima, solo senza Hitler.
Qual è il suo rapporto da regista con i documenti audiovisivi di archivio?
Devo dire che non me ne servo mai. La ragione è che quando li vedo percepisco l’interesse di chi li ha prodotti, in molti casi soddisfacendo richieste venute dall’alto. Parte di questi materiali fu realizzato dall’ufficio dell’esercito americano. Tutto ciò non mi appartiene in nessun modo e, sapendo cosa significasse scegliere un’inquadratura piuttosto che un’altra, ho potuto capire per quali ragioni fossero stati prodotti.
Penso che per poter comprendere non sia fondamentale guardare fuori, quanto dentro noi stessi. Credo che realizzare un film significhi essere capaci di chiudere gli occhi per estrapolare le immagini direttamente dalla nostra testa. Esse sono parte di ciò che siamo, della nostra memoria, e quindi rappresentano qualcosa di sicuramente più forte. Questa è la ragione per cui non ho mai utilizzato materiale d’archivio.
Ci sono due sequenze in Heimat forse paradigmatiche di quello che è successo in Germania nell’immediato dopoguerra. La prima riguarda la memoria privata della guerra, e si trova all’inizio del primo episodio della prima serie. Paul Simmon, infatti, torna a casa dalla prima guerra mondiale e si siede a tavola con tutti i famigliari che, incuriositi, lo tempestano di domande. Ma lui rimane completamente in silenzio e non dice niente. La seconda riguarda la memoria pubblica, ed è invece quando Pauline apprende da Wielfried dell’esistenza della soluzione finale seduta sul divano. All’inizio del capitolo successivo, però, la voce narrante di Glasisch, ricapitolando le ‘puntate’ precedenti, quando si sofferma sul fermo immagine di Pauline sul divano dice “Qui ha appena saputo che suo marito è disperso in Russia”. Questo passaggio, fra quello che è stato e quello che si è raccontato, corrisponde al rapporto tra storia e memoria pubblica. Quanto questo rapporto fra memorie (pubblica e privata) è stato veicolato, sorretto, alimentato dalle immagini nella Germania del dopoguerra?
Nell’anno successivo alla fine della guerra c’erano soltanto i cinegiornali, ma la memoria pubblica rappresentò qualcosa di più. Creare una memoria pubblica significava lasciare i testimoni con i loro pensieri e le loro sensazioni, senza preoccuparsi delle modalità di comunicazione e di elaborazione delle situazioni traumatiche che avevano vissuto. Quando vidi lo sguardo di mia madre non appena mio padre tornò a casa dalla guerra… quell’immagine ebbe una forza tale da non poter essere eguagliata. Nessuno disse una parola, ma le sensazioni, l’empatia di quel momento erano vividissimi. Il dramma, quello vero, fu completamente muto.
Qualcosa di simile accade anche all’inizio di Heimat. Il soldato che torna dalla sua famiglia non può rispondere a nessuna domanda, nessuno può immaginare cosa alberghi dentro di lui, quindi nessuno può chiedergli le cose giuste. Il soldato non parla perché le domande che gli vengono poste sono sbagliate. Per questo credo sia naturale il silenzio. Si tratta di una situazione che ritroviamo anche in altre opere, basti pensare all’Odissea, al ritorno a casa di Ulisse e al suo restare zitto.
Sulla memoria pubblica, rispetto alla scena che citavi, siamo nella situazione di oggi. Tutti i giorni ci sediamo a tavola a mangiare, e mentre guardiamo la televisione che ci comunica la morte di qualcuno in qualche parte del mondo non interrompiamo il nostro pasto. La sensibilità umana non è in grado di capire da sola come realmente gira il mondo. Abbiamo costantemente bisogno di un punto di vista analitico e intellettuale per assimilare nel modo giusto la miriade di informazioni che ci arriva. Noi non impariamo niente da soli, attraverso i nostri occhi. Comprendere tutto ciò che percepiamo è un lavoro estremamente difficile.
Cosa pensa delle varie forme di racconto drammatizzato e sentimentale della Shoah, nate dopo la discussa serie televisiva americana Holocaust di Marvin Chomsky?
In Germania la messa in onda di Holocaust fu seguita da un intenso dibattito, che coinvolse molti politici e scrittori. Ognuno cercava di chiamarsi fuori da quello che era successo difendendo il suo punto di vista, e io non potevo davvero sopportarlo. Quella storiella sentimentale arrivata da Hollywood non aveva niente a che fare con il dramma dell’Olocausto. Avevo l’impressione che tutti quelli che ne parlavano stessero mentendo, che stessero usando i loro ricordi e il loro senso di colpa per fare spettacolo. Inoltre quel gran vociare non cambiò niente, non indusse nessuno a riflettere davvero sul nostro passato, a cercare di capirlo.
In che modo la mancanza nel dopoguerra di un’elaborazione responsabile della Shoah può influire sugli attuali scenari politici e sociali? C’è il pericolo concreto di un ritorno di fiamma di politiche discriminatorie contro le minoranze?
In linea generale può essere un pericolo, ma da questo punto di vista in Germania c’è una sensibilità del tutto particolare. Due mesi fa, ad esempio, è nato un acceso dibattito attorno al libro di Thilo Sarrazin, La Germania si autodistrugge. Sarrazin era consigliere della Bundesbank e un iscritto all’SPD. Ha perso il suo lavoro ed è stato cacciato dal partito perché tra le righe di quel che aveva scritto è stato avvertito un pizzico di razzismo verso la comunità islamica e quella turca. Si trattava di riferimenti veramente molto velati, ma sono stati sufficienti per allontanarlo.
Penso che oggi il nostro paese sia veramente democratico e che questo sia il risultato dello scontro generazionale, come del senso di colpa che ci ha accompagnato per anni. Se guardo all’oggi sono assolutamente certo che i tedeschi non permetterebbero mai che fenomeni come il neofascismo possano prendere piede nel paese. Per molto tempo il mondo ha puntato lo sguardo sulla Germania chiedendosi come sia stato possibile commettere atti tanto atroci. Tuttavia gli Stati che si facevano quella domanda non si interrogavano con altrettanta urgenza sulla propria storia. Questo per noi ha rappresentato un impulso all’analisi e alla riflessione, ma non ha portato gli altri ad elaborare e riconoscere la propria parte di responsabilità.
In questo senso, lei pensa che la riattivazione di una memoria consapevole del passato possa avvenire attraverso la creazione di un nuovo immaginario collettivo?
Questa è una delle mie più grandi speranze. Attraverso i film possiamo penetrare l’esistenza degli altri, e credo che in generale l’arte rappresenti proprio questo. Per me il pensiero che la memoria collettiva possa attivarsi a partire dal cinema rappresenta qualcosa di assolutamente entusiasmante. Attraverso le immagini filmiche tutto il mondo potrebbe comunicare in momenti molto intimi e concreti. L’immaginario cinematografico agisce allo stesso modo in cui l’immaginazione si è costruita negli anni precedenti alla nascita del cinema, ma solo quest’ultimo ci permette di fare l’ultimo passo verso la costruzione di una sorta di “memoria mondiale”. A questo proposito mi viene in mente quanto disse Chris Marker: non riesco proprio a immaginare come il mondo abbia potuto ricordare prima che arrivassero i film.