Nonostante abbia più volte ribadito la sua ferma volontà di chiudere col progetto Heimat, il regista tedesco Edgar Reitz torna a Venezia per presentare il quarto capitolo della saga. Più che un “Heimat 4”, però, Die Andere Heimat – Cronik einer Sehnsucht (letteralmente “L’altro Heimat – Cronaca di una visione”) è da considerarsi allo stesso tempo un prequel e un film altro, di quasi quattro ore, a sé stante.
Siamo in Prussia, alla fine della prima metà dell’Ottocento, in un piccolo villaggio di nome Schabbach posto tra le montagne dell’Hunsrück. Come per gli altri episodi della tetralogia, l’intento di Reitz è quello di ricercare le origini della storia della Germania contemporanea attraverso la ricostruzione dell’epopea di un’umile famiglia contadina. Rispetto al primo episodio di Heimat – Eine deutsche Chronik (“Heimat – Una cronaca tedesca”, 1984) che comincia dalla fine della Prima guerra mondiale – fino ad arrivare con Heimat 3 – Chronik einer Zeitenwende (“Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale”, 2004) ai giorni nostri – il quarto capitolo fa un bel passo indietro, iniziando nel 1843. La volontà è quella di non creare alcun legame narrativo tra i personaggi della serie e quest’ultimo film. L’unica continuità possibile, infatti, è rappresentata dal villaggio di Schabbach, rimasto praticamente immutato nel corso degli anni, vero protagonista di tutta la vicenda.
Schabbach rappresenta alla perfezione l’immaginario storico e paradisiaco del mondo perduto, il paesaggio nostalgico dell’infanzia in cui scavare alla ricerca delle origini della storia. Questa idea ben precisa si lega in modo lineare all’utilizzo del termine tedesco “Heimat”, di difficile traduzione. “Heimat” è la “terra madre”, intesa come opposta alla terra straniera, quindi non “patria” come spesso erroneamente tradotto. Il legame a una presunta identità nazionale è infatti lontano e il concetto si richiama soprattutto all’idea di famiglia allargata, di comunità radicata alla terra di origine. La connotazione del termine appare quindi strettamente legata al mondo contadino, e quindi rappresentata al meglio da un piccolo villaggio di campagna. Il riferimento polemico è però anche agli “Heimatfilme” – genere cinematografico di grande successo nella Germania degli anni cinquanta, composto da pellicole ambientate in contesti rurali dai toni melensi e semplicistici – contro cui Reitz si scagliò dai tempi del Manifesto di Oberhausen del 1962, di cui fu uno dei principali firmatari.
Quello di Reitz è un cinema letterario che tende verso l’epica. A partire da una forma narrativa in bilico tra il romanzo familiare e quello di formazione, in questa quarta “cronaca” sono però il romanzo storico e la letteratura di viaggio a essere protagonisti. In una dimensione onirica che riprende il filone storiografico della Altagsgeschichte tedesca (“storia del quotidiano”) questo film si propone come un “romanzo del quotidiano” che assume un andamento diaristico. La prospettiva è la stessa della serie di documentari Geschichten aus den Hunsrückdörfen (“Storie dei villaggi dello Hunsrück”, 1980) girata da Reitz stesso prima di cominciare Heimat. Se nella serie al centro della narrazione ci sono soprattutto gli uomini e le donne che emigrano dalla “terra madre”, sia nei documentari che in Die Andere Heimat ci si sofferma su chi resta o su chi vorrebbe andare ma non riesce a partire. Questa impossibilità di andarsene dalla “terra madre” è però un paradosso: quelli che partono, infatti, lo fanno perché ne hanno bisogno, non possono fare altrimenti, soprattutto a causa delle precarie condizioni economiche e ambientali. Ma chi parte non perde la “Heimat”, che è soprattutto una percezione di appartenenza, una casa da portarsi dietro, non un luogo fisso in cui vivere.
Jakob vorrebbe partire e andare in Brasile, spinto soprattutto dalle tonnellate di letteratura di viaggio che legge di nascosto dal padre, che a sua volta vorrebbe un futuro per il figlio nella fucina di famiglia – anche lei grande protagonista di tutta la serie – assieme al fratello Gustav. Dopo un suggestivo piano sequenza sulla vita comunitaria all’interno del villaggio, il film comincia proprio con un libro lanciato fuori dalla porta di casa, di fronte la fucina. L’immaginazione non è concepita, a Schabbach bisogna dimostrare di saper fare qualcosa di materiale e utile alla vita comunitaria. Pur essendo un elemento apparentemente avulso dal contesto familiare, Jakob fa parte ontologicamente di quel mondo, e più lo rifiuta più ci si ritrova inglobato, intrappolato suo malgrado. Tenta diverse volte di scappare, ma poi non può fare a meno di ritornare a casa.
È proprio la letteratura di viaggio che spinge Jakob verso una partenza che non ci sarà. Tra il 1830 e il 1850 i villaggi dell’Hunsrück vedono un vero e proprio esodo di massa verso il Sudamerica, in particolare in Brasile. Il film nasce proprio dalla volontà di recuperare la memoria di questo esodo nelle vicende familiari di una piccola comunità contadina. Bellissime e commoventi le ampie inquadrature delle carovane piene di speranze, in fila indiana, dirette lungo le strade di campagna verso un porto da cui salpare oltre oceano. Die Andere Heimat è anche un film sull’emigrazione di ieri e di oggi – toccante la lettera inviata alla famiglia dal Brasile in cui Gustav racconta di decine di donne e bambini che muoiono in mare durante la traversata oceanica, esattamente come accade giornalmente per i migranti di oggi che cercano la fortuna partendo per l’Europa.
Non a caso il film finisce in un cimitero, quasi da monito. Reitz dimostra non poca attenzione nei confronti delle tombe, delle lapidi, della terra sotto la quale si seppelliscono i morti, che rimangono. Sono molte le inquadrature dove lo schermo è naturalmente diviso a metà tra cielo e terra, quasi a sottolineare metaforicamente l’irrisolvibile paradigma dell’uomo, conteso tra esperienza del passato – le origini – e aspettativa del futuro – l’immaginazione. Questa attenzione nei confronti della terra, dello spazio e del cielo corrisponde a un occhio molto preciso che l’autore tedesco assume nella rappresentazione di una serie di oggetti materiali, come i ferri infuocati con cui vengono continuamente marchiati gli zoccoli dei cavalli del villaggio. Ferri di cavallo che sono tra le poche macchie di luce colorata in un bianco e nero estremamente luminoso. Nel corso di tutta la serie Reitz ci aveva abituato a cambi repentini di fotografia, di scena in scena ma anche da un’inquadratura all’altra, tra bianco e nero e colore. Egli stesso in diverse interviste ha dichiarato di non utilizzare alcun criterio nella scelta della fotografia ma di decidere di situazione in situazione, reputando tale atto un mero esercizio estetico. Fatto sta che il bianco e nero di Heimat libera la storia dal realismo e la rende romanzo, sbiadendola come la pagina di un libro scritto. In questo film in realtà sembra che Reitz utilizzi degli spruzzi di colore soprattutto per alcuni elementi naturali, come pietre, foglie, fiori e raggi solari, quasi fossero dei continui flash memoriali che rimandano a un passato rappresentato in bianco a nero ma ricordato a colori.
La produzione della prima serie di Heimat rappresentò a detta dello stesso autore una reazione politica alla messa in onda in Germania del serial televisivo americano Holocaust (M. Chomsky, 1978). Allo stesso modo, Die Andere Heimat potrebbe delinearsi come una risposta al tentativo di Michael Haneke ne Il nastro bianco di raccontare i prodromi del nazismo attraverso le oscure vicende di un piccolo villaggio tedesco. A differenza di Haneke, Reitz scende negli abissi della storia tedesca senza concedere soluzioni facili per lo spettatore. La storia non è un’equazione algebrica ma una sostanza caotica, viva e imprevedibile, così come la materia cinematografica. Pertanto, con Die Andere Heimat Edgar Reitz riesce nella difficile operazione di coniugare la storia con il cinema, raggiungendo probabilmente gli apici della sua carriera artistica.