Waiting for the Barbarians
Ciro Guerra traspone il romanzo di J. M. Coetzee in una riflessione sul Potere e la genesi del nemico, sulla trasformazione degli orizzonti in confini, capace di piegare le suggestioni metafisiche a uno sgaurdo rivolto anche al nostro presente storico.
Un avamposto militare di un Impero imprecisato in un deserto non meglio definito. Fuori, la minaccia (concreta?) di un popolo nomade di cui non sappiamo niente. Dentro, giochi di potere tra ufficiali. All’orizzonte, un’infinita distesa di terra e polvere. Da queste prime suggestioni, verrebbe scontato richiamare alla memoria Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Ma a visione iniziata risulta chiaro come Waiting for the Barbarians, ultimo lungometraggio di Ciro Guerra, non abbia nulla o ben poco a che vedere con l’esistenzialismo dello scrittore bellunese. Adattamento dell’omonimo romanzo del Premio Nobel J. M. Coetzee, che firma anche la sceneggiatura, il film del regista colombiano è al contrario ancorato a uno sguardo socio-politico che l’indefinitezza spazio-temporale (solo il vago succedersi delle stagioni scandisce l’andamento della vicenda) scardina da precise coordinate storiche e, dunque, rende capace di aderire al nostro presente.
Waiting for the Barbarians è una riflessione su come il Potere, per legittimare e preservare sé stesso, abbia bisogno di un nemico; sui disastrosi risultati prodotti da politiche che, a caccia di narrazioni convincenti attraverso cui poter esercitare la propria forza, finiscono col creare nemici veri e temibili. Un potere che qui ha le sinistre sembianze del colonnello Joll (un granitico Johnny Depp con tanto di occhiali da sole molto glamour in anticipo sui tempi) e dell’ufficiale Mandel (Robert Pattinson). Alle loro torture, inferte ai prigionieri del campo per estorcere confessioni fasulle prodotte dalla paura e dal dolore, alle ingiustizie perpetrate in nome di deprecabili ideologie, si oppone il magistrato interpretato da un fiero e compassionevole Mark Rylance, mite ma coraggioso funzionario che, per aver preso in cura una nomade ferita dai militari e averla riaccompagnata in segreto dai parenti, verrà punito. Un braccio di ferro teso, che contrappone secondo la più classica delle logiche due essenze agli antipodi, poli di un confronto non solo tra bene e male ma anche tra ordine e caos, tra spirito di distruzione e cultura (il magistrato studia la lingua dei nomadi e colleziona oggetti a loro appartenenti), tra chi fomenta una guerra inutile e chi si prodiga per preservare la pace. In mezzo, quale linea di demarcazione pronta a far piombare tutto nel caos, il nemico, quell’entità generata dalle logiche imperialiste (e oggi possiamo tranquillamente dire sovraniste), attraverso violenza e intolleranza, odio e frustrazione, e in generale una falsa percezione della realtà, fino al punto in cui questa entità non diventa qualcosa di concreto e incontrollabile.
Sa bene dove vuole condurre il suo film Ciro Guerra, che non a caso muta il finale del romanzo di Coetzee per mostrarci l’arrivo di questi “barbari” (come vengono definiti paradossalmente i nomadi dai coloni occidentali), nel momento in cui l’orizzonte illimitato, con tutte le possibilità di scoperta e conoscenza che l’infinito sottende, si tramuta nella finitezza di un confine diventato tristemente reale, tangibile, e minaccioso, foriero di una violenza invocata dal sangue versato. Un finale in cui le aperture metafisiche a un ignoto cui approcciarsi con rispetto e deferenza, si sfaldano in quell’ultima immagine tanto simbolica da farsi immediatamente concreta - e sull’opposizione tra chiusura e apertura gioca abilmente Guerra, nell’alternanza tra interni soffocanti, dove però può spesso esprimersi un barlume di amore, ed esterni che sono sempre più simili a una prigione a cielo aperto.
Cristallino nella sua esposizione, classico nel suo andamento piano e inesorabile, il limite di Waiting for the Barbarians sta nel suo ripetersi senza arricchire più di tanto una tesi indubbiamente lampante, che non aggiunge molto a ciò che già sappiamo e vediamo consumarsi nella realtà. Non manca comunque una piccola parentesi sulle difficoltà con cui i “barbari”, - quando l’uomo bianco è diventato ormai sinonimo di ostilità e la discriminazione comincia ad esercitarsi su entrambi i fronti, - si approcciano anche nei confronti di chi, come il magistrato, sta tentando di aiutarli. Girato per evocare immagini suggestive che richiamano tanto il western di frontiera americano (con un riferimento a Sentieri selvaggi nell’immagine della soglia aperta sulla radura) quanto, negli interni più angusti, un clima da dramma carcerario, l’ultima opera di Guerra è un film molto solido, riuscito negli intenti per quanto non sempre interessante. In definitiva, uno dei titoli più convincenti tra quelli proposti nelle ultime giornate del concorso alla 76 Mostra del Cinema di Venezia.