Bones and All
Guadagnino fa ancora, come se fosse sempre la prima volta, un "critofilm": questa volta l'oggetto in analisi è il paesaggio americano degli anni 80, ricettacolo di rimossi culturali e teatro di spettri che attendono solo forma corporea.
Quando Bones and All si apre con le immagini di alcune pareti pitturate, per poi passare a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento, è chiaro che per Luca Guadagnino il cinema è ormai questo: uno scarto di dimensione, una messa in profondità degli schemi figurativi codificati, un momento di ripensamento critico degli immaginari attraverso gli strumenti del medium.
Questa volta a essere messo in crisi è il cinema americano nella sua grammatica di base, nelle sue quinte sceniche, nel suo paesaggio (le piane collinari del Midwest anni 80) apparentemente piatto, spoglio e senza corpi, e invece pieno di corpi rimossi, ridotti a virtualità marginali, appesi al bordo di territori inospitali. Da vero e proprio “maestro del sospetto” (non sono forse i suoi film tutti esercizi di sospetto teorico verso gli schemi predefiniti?) Guadagnino non crede alla presunta superficialità del paesaggio rurale statunitense e infatti rintraccia nella sua immagine apparentemente bidimensionale uno scorcio concettuale di profondità inattesa: gli bastano poche inquadrature per rileggere un territorio non molto tradotto in immagine – il cinema americano anni 80 è soprattutto un cinema urbano – in un esemplare spazio concettuale stretto tra il presentimento di morte del road movie anni 70 (La rabbia giovane, Un tranquillo weekend di paura) e la dichiarazione del trauma degli anni 90 (il thriller erotico); uno spazio sintomatico, infestato da ombre impalpabili, spettri mortiferi (quelli che investiranno i sensi e la sessualità nei decenni successivi) ancora allo stato di invisibilità e in attesa di essere assegnati a dei corpi.
Questi corpi Guadagnino li trova nel romanzo di Camille DeAngelis – dove cercare un pubblico possibile se non nella dimensione teen, l’unico segmento demografico ancora sensibile al divismo? – e subito li istanzia come chiave espressiva, oltre che narrativa (è la storia di Maren e Lee, due giovani diseredati dal mondo, in fuga da un passato di violenza, uniti dall’amore reciproco e dal cannibalismo a cui sono per natura condannati), con cui problematizzare il paesaggio e rivelarlo come un luogo del rimosso. Il lavoro “critofilmico” sull’immagine a questo proposito non consiste più in uno sforzo grafico (come nei passati cortocircuiti tra Fassbinder e Visconti) e neanche nel dissolvimento della scatola scenica operato attraverso continue rotture delle cornici definitorie (come era stato in We are who we are dove era messa a tema la grafia di Pialat), ma nella riduzione di tutte le distrazioni a favore dell’ingresso in scena del corpo e delle sue sensazioni, e quindi nella semplificazione della stessa scatola scenica a pochi elementi espressivi – il colore, inspessito o sfumato per tradurre in visione i volumi luminosi, e il movimento, ridotto al minimo, per massimizzare il tempo e il ritmo interno tra questi volumi -, controllati per fare brillare il corpo in tutta la sua presenza sensoriale.
Se Chiamami col tuo nome individuava nel corpo una matrice di ambiguità di senso e di sentimento, questo film, che è che lo specchio di quello tratto da Aciman (uno specchio che ha aggiunto le rifrazioni di Suspiria), riprende il discorso e lo potenzia, fino a riconoscere nell’oggetto corporeo non solo un catalizzatore di ambiguità sensoriali ma un punto di indistinzione morale in cui l’amore e la morte coincidono, anzi collassano – è il minimo per un film in cui l’orgasmo coincide con il decesso, il sentimento è una condanna, e il massimo atto di amore è l’appropriazione della carne altrui, letteralmente un cannibal love. È intorno al peso di questo oggetto moralmente indistinto che le inquadrature “semplici” di Guadagnino fanno spazio, riducendo i marcatori di stile al punto da diventare quasi leggerissime membrane pronte a spaccarsi alla minima onda d’urto; ed è sempre intorno a questo oggetto estraneo, questo corpo dell’orrore, che il paesaggio americano finalmente si riarticola, staccandosi propria illusoria amenità senza profondo e senza ambiguo, rivelandosi invece sfondo ideologico e ricettacolo di un inconscio culturale, teatro di una violenza complessa, tanto più endemica, sofferta e disperata quanto non elaborata.
Da questo slittamento non si torna indietro, come mostra il controfinale: dopo che la virtualità del rimosso si è accesa in materia fatta di carne e sangue – Guadagnino prova ancora di essere uno dei pochi registi contemporanei interessati all’esperienza percettiva della pelle – , l'innocenza non può che essere un sogno, una pura visione, questa sì, fuori dalla dimensione del tempo e del trauma, un puro sospiro.