The Quiet Girl
Nella cinquina dei candidati all'Oscar 2023 per il Miglior Film Straniero, figura l'esordio di un autore irlandese che parla della scoperta degli affetti e di vista che si schiude per la prima volta al mondo, attraverso un grande lavoro sul silenzio.
Dirigere un film ricco di immagini silenti, di parlato laconico e sussurrato, è da sempre una sfida che diversi registi raccolgono per lavorare più a fondo sul portato discorsivo delle inquadrature e sulla profondità dello sguardo del dispositivo. Operazione che significa, essenzialmente, rientrare nelle categorie di autorialità, di operazione d’essai, specie perché film di questo tipo scivolano con naturalezza nel fondo buio e imperscrutabile dello slow cinema, coi suoi lampi o morbidi baluginii di trascendenza (come tanto piace a Schrader). Non è però sempre così. Il silenzio delle immagini non custodisce necessariamente un nucleo di significazione dormiente, da ridestare per mezzo di un ingaggio teorico e attivo dello sguardo spettatoriale. C’è anche il cinema che col silenzio parla direttamente allo spettatore, che con le immagini dice senza dire oralmente, ma neppure senza nascondere. Ed è questo il caso dell’esordio di Colm Bairéad, The Quiet Girl, presentato alla scorsa Berlinale e inserito nella cinquina dei candidati all’Oscar per Miglior Film Straniero.
Ambientato in un contesto rurale nell’Irlanda degli anni 80 (dove l'irlandese diventa anche la lingua parlata dai personaggi), il film racconta, in quattro-terzi, di Cáit, la quiet girl del titolo, che viene affidata per il tempo di un’estate dai genitori a dei lontani parenti, Eibhlín e Seán, marito e moglie senza figli. I genitori di Cáit, invece, di figlie ne hanno tre, e ne stanno pure attendendo un quarto senza neanche essere in grado di curarsi delle altre. Non c’è amore, non c’è premura alcuna da parte del padre, alcolizzato e gretto, né la madre sembra avere alcuno slancio per la cura dell’economia domestica, e piange in solitaria, di spalle, per non farsi vedere dalle ragazze. Cáit, dunque, si rivela mansueta, remissiva, docile, forse come conseguenza della letargia di affetti dell’ambiente famigliare: l’unica azione che è in grado di praticare è quella di nascondersi, tra l’erba alta (come nella sequenza di apertura) e sotto al letto, quando le viene concessa attenzione solo per essere redarguita.
È una specialità di Cáit, quella dell’invisibilità e del silenzio, la sola risposta che ha da offrire anche nelle prime battute del suo arrivo da Eibhlín e Seán. E se il silenzio delle immagini non ha nulla dietro di sé, se non dice indirettamente ma direttamente, è perché la laconicità di Cáit è espressione diretta della sua inesperienza e inabilità sentimentale, perché in fondo al cuore non c’è un sedimento dormiente di affezione e sensibilità da ridestare. Il silenzio di Cáit è piatto, senza fondo, dato che non nasconde nulla e il suo spettro emotivo, la possibilità di far vibrare le corde del cuore e attivare il suo sistema sensoriale, sono da formare da zero. L’ambiente domestico di Eibhlín e Seán è accogliente, curato, la luce che filtra dalle finestre è calda e si diffonde con morbidezza lungo gli spazi, dove a casa di Cáit, per contro, la fotografia puntuale e descrittiva fa apparire tutto freddo e piatto, scuro. Dentro questa cura di panni, stoviglie, mobilio, ancor prima che nell’approccio coi due lontani parenti, la vista di Cáit prende a schiudersi, con una curiosità degli occhi che la piccola Catherine Clinch (qui all’esordio sorprendente) sembra rivelare davvero come se stesse facendo esperienza per la prima volta delle cose attorno a sé. Poi, arrivano le carezze di Eibhlín, che le pettina meticolosamente i capelli, le fa fare per la prima volta il bagno nell’acqua calda, e non la rimprovera quando la vede spaventata e imbarazzata per aver fatto ancora la pipì a letto.
Le cose si irradiano alla vista per la prima volta, i buoni sentimenti sono una scoperta. Anche Seán esce pian piano allo scoperto, facendolo in modo persino più decisivo di Eibhlín, giacché offre alla ragazzina la possibilità di scorgere l’esatto contraltare alla figura anaffettiva del padre, e avendo con lei in comune il dono, la qualità di un saper dar conto del silenzio, quando le parole tradiscono e fanno del male (come sosterrà Seán stesso in un momento decisivo del film). Un silenzio che continua a permeare le immagini, intervenendo nella narrazione con la forma di un segreto taciuto da parte di Eibhlín e Seán; ma, in particolare, che veicola la lenta apertura alla visione da parte di Cáit anche mediante un lavoro di auto-sottrazione. In che modo? Mentre la ragazzina entra a contatto col mondo e con l’amore dei due genitori putativi, di questi silenzi osserviamo una lenta recessione, una riduzione. Il suo spazio, dunque, recede per lasciare campo alla curiosità vergine delle domande che Cáit rivolge ai due adulti. Ed è attraverso questa cura millimetrica delle distanze tra un silenzio e un altro via via più sottili, quindi tra una domanda e un’altra (sempre più vicine), che le immagini di The Quiet Girl vanno al cuore di questa schiusura emotiva. Pervenendo pure a un finale in misurata ascendenza, tra l’esaltazione di una corsa liberatoria, quando l’imbarazzo della cecità è svanito e un abbraccio soltanto adesso filmabile, che assieme al perfetto accompagnamento musicale di Stephen Rennicks (Normal People e Conversation with friends) tocca tutte le corde giuste, commuove con estrema facilità e chiude con una bellezza estatica.