Conferenza stampa di Pasolini di Abel Ferrara
Il regista racconta insieme al protagonista Willem Dafoe, a Ninetto Davoli e ai suoi collaboratori la genesi della propria personale "meditazione" su Pasolini
“Un film sull’ultima parte della sua vita, sul suo lavoro, sulla sua passione ma anche sulla sua compassione”. E’ così che Abel Ferrara apre la conferenza stampa di presentazione del suo Pasolini, che ha già spaccato in due la ricezione della critica qui a Venezia e che continuerà a far discutere. Un’opera che accede allo scrittore e regista in maniera lieve, quasi priva di peso, rendendola una figura disincarnata, aliena e fuori dal tempo. Ferrara smentisce subito di sapere più del dovuto sulla morte del poeta (“Non ho mai detto di sapere chi l’ha ucciso, è una grande balla dei giornalisti, chi ha scritto quella bugia?”) e poi si lancia, come al solito senza troppa voglia, nel tentativo di spiegare brevemente il suo film alla platea: “Ci siamo focalizzati su quella notte in cui fu ucciso perché la morte di ciascuno non fa altro che riflettere la propria vita, perciò siamo partiti da lì. Ci sono sempre stati dei film in qualche modo negativi che hanno portato a delle critiche, così come facevano con i libri quando li bruciavano, e i film di Pasolini erano tra questi”.
Mattatore assoluto della conferenza è però fin da subito Ninetto Davoli, interprete qui di Epifanio e di Edoardo De Filippo, che fagocita letteralmente l’incontro con la stampa con la sua carica verace e vulcanica. “Pasolini era ogni giorno in tribunale, è stato denunciato 32 o 33 volte in assoluto, anche solo perché aveva la macchina in doppia fila, visto che l’ostilità nei suoi confronti da parte di molti era assoluta e indiscriminata. Pierpaolo raccontava le cose in modo non violento ma reale, affrontava certe realtà con la massima dose di verità e la gente era sconvolta e intirizzita da quello cui dava voce. Gli piaceva vivere la vita, non è affatto vero che, come ha scritto qualcuno, abbia raccontato la sua morte. Tutti noi oggi siamo inglobati in un sistema di vita consumistico, che per lui era il male assoluto e che ci ha stritolati. Un sistema che ci ha portato a quel che è l’Italia di oggi, ma non solo. Abbiamo perso il valore della vita, il sistema ci ha catturati. Pierpaolo avrebbe potuto essere frenato dalla pressione costante invece è riuscito a ridisegnare benissimo cosa voleva dire scandalizzare, non aveva paura di nulla”.
Dopo aver zittito platealmente chi chiedeva se il titolo non fosse troppo generico rispetto al segmento temporale piuttosto ristretto di ciò che viene narrato nel film (un giornalista ha infatti proposto il titolo L’ultima notte di Pasolini), Davoli si è soffermato sulla specificità del lavoro di Ferrara: “Sono vent’anni che Abel desidera di fare qualcosa su Pasolini, ha questo tarlo da un po’. Chiaramente il film non vuole essere nulla di assoluto su Pierpaolo, anche perché nemmeno dieci film riuscirebbero a dare un quadro esaustivo di tutto ciò che era. Abel invece si è voluto soffermare su punti specifici dell’uomo e della persona e quest’operazione l’ho trovata molto interessante”. Lo sceneggiatore Massimo Braucci parla invece dell’immaginario di Pasolini sul quale si è deciso di mettere le mani: “Molte cose dette non passano né subiscono quasi mai un esame accurato. Questa non è un’inchiesta giudiziaria, ma letteraria. Di Pasolini sondiamo anche il tema del doppio, un’ossessione che negli ultimi anni della sua vita si è ripresentata in tutto quello che ha prodotto e in ciò cui ha lavorato”. Elementi che conferma anche Dafoe, asserendo che si tratta di un giallo e non di un indagine. Ferrara invece non si mostra troppo incline ad accettare confronti strettissimi tra lui e Pasolini: “La differenza? Io sono cresciuto guardando i suoi film, lui no. Da buddista quale sono, medito su colui che è stato il mio maestro”.
Presente anche Adriana Asti, cui viene chiesto un aneddoto davvero inedito e mai raccontato prima su Pasolini: “Vi prego, non mi fate parlare di Pierpaolo che è sempre emozionante per me e divento noiosissima. Molti aneddoti spesso nessuno li conosce, ma sono sterminati. Speravo di poter interpretare la madre di Pasolini senza risultare troppo coinvolta per via del legame con Pierpaolo, che fu fortissimo, ma devo davvero ringraziare Abel. Lui ha una magia segreta, che è un punto in comune tra lui e Pasolini: quando piazza una macchina da presa sul set, tutti coloro che gli stanno davanti diventano automaticamente i personaggi che lui ha nella testa, e io mi sono sentita davvero una creatura di Abel Ferrara in questofilm. Con Pierpaolo era lo stesso. Sì, eravamo intimi, mangiavamo insieme, viaggiavamo insieme. Quando si è giovani si pensa di essere immortali e io pensavo davvero che lui lo fosse, per cui è stata molto dura...”. Qui irrompe la commozione, accompagnata puntualmente dagli applausi.
Interrogato più nello specifico in proposito, Dafoe ritorna sul modo in cui ha lavorato su Pasolini dal punto di vista interpretativo: “Non ho l’ho rappresentato o interpretato, ma mi sentivo piuttosto in dovere di creare un dialogo privato e personale con ciò che Pasolini aveva intorno e con ciò di cui era circondato”. Sull’uso per alcuni totalmente anti-filologico e inaccettabile dell’inglese, Ferrara precisa, ribadendo di aver già risposto mille volte a questa domanda, che la lingua altro non è che un artificio per rendere il loro approccio al film più diretto e personale: “Come Willem io sono americano e non parlo italiano: le cose che dice le avremmo potute esprimere solo nella nostra lingua, mentre il romanesco dei ragazzi di vita è una scelta artistica e creativa molto diversa. Non solo, mi sento di aggiungere che questo film non è necessariamente Pasolini, Roma, 1975, ma per me potrebbe essere a New York ieri notte, con un uomo ricco e famoso su una bella macchina che è a Brooklyn e se ne serve per rimorchiare ragazzi dominicani”.