Il giovane favoloso
Il film di Martone si candida a riflessione fondamentale sulle sorti intellettuali del nostro paese, coadiuvato da un Elio Germano in stato di grazia.
Un ragazzo avanza per i colli, chiudendo gli occhi ad assaporare gli odori e suoni che la natura, madre onnipotente di tutto il creato, ha disposto tutt’intorno i suoi sensi perché se ne potessero saziare. Quel giovane, ancora fresco del ricordo di un’infanzia spensierata condivisa con i fratelli, ha ad attenderlo nella sua casa paterna centinaia di libri cui dedicare la sua fame di pensieri e sensazioni, secondo lo schema rigido di disciplina, studio e clausura pensato dal padre per l’educazione dei figli. Il corpo, ancora dritto e stabile, avanza curioso verso una dimensione superiore di idee da dove strappa di nascosto pezzi di vita acerba: la sorpresa inedita di un viso di donna spiato dalla finestra, il sogno di un futuro di gloria che contenga in sé tutta la conoscenza del mondo, ancora ignaro della sofferenza che può derivarne.
Il giovane favoloso è Giacomo Leopardi, colto nell’opera di Mario Martone dalla sua prima giovinezza a Recanati agli ultimi anni sofferti a Napoli poco prima della prematura morte a quasi trentanove anni: un intelletto costretto in un corpo infermo che è solo la diretta esternazione di quella forza terribile che è la vita promulgata a ogni costo dalla natura. Elio Germano interpreta - o meglio sarebbe dire assimila - nel proprio scheletro quel piegarsi della materia a ciò che la crea per poi distruggerla, ultima metafora carnale della lenta deformazione che la natura impone a ogni cosa. Il suo stentato avanzare gobbo, la schiena ricurva, afflitto da mille mali, non è che l’esplicitazione di una verità implacabile che riguarda ogni essere vivente e che per questo infastidisce coloro che preferiscono credersi la razza superiore prediletta da Dio. Raccontare Leopardi, oltre ogni ricostruzione biografica, è raccontare questo corpo deforme e la voce che ne fuoriesce a cantare la vita così come è, senza pietismi o bugie consolatorie; da questo compito fondamentale, pena la totale insincerità del film, Martone non si esime, costruendo un personaggio progressivamente emarginato dal mondo che rifiuta la naturale mostruosità delle cose che i suoi scritti e la sua carne dolorante descrivono con lucida schiettezza.
Qui sta il valore determinante de Il giovane favoloso, la chiave che oltre l’interpretazione quasi epidermica di Elio Germano, colloca l’opera nel contesto più importante di riflessione critica del pensiero intellettuale di un paese, l’Italia, abituato a sminuire i pensatori meno accomodanti, meno inclini a quella visione confortante fatta di leggerezza, dipendente dalla risata quale linea lunga la quale livellare ogni cosa. Dopo un secolo e mezzo di mortificazione attuata nelle scuole, nei libri di testi, nei compendi affrettati di rapide lezioni di italiano nelle scuole, forse c’era rimasto solo il cinema per un tardivo tentativo di recupero e comprensione di quelle idee che l’immaginario culturale - esclusa una ristretta cerchia di sinceri appassionati del pensiero umano - ha consapevolmente scelto di tradurre in macchiette, nella medesima forma in cui Leopardi avanzava tra popolani e studiosi pronti a irridere un dolore del vivere che credevano – o volevano costringersi a credere – non li riguardasse.
Dietro il gobbo, lo sfigato destinato a una verginità forzata, colui che scriveva male del mondo e della vita solo perché invidioso dell’altrui fortuna; dietro l’uomo annoiato odiato da innumerevoli studenti rozzamente convinti che del buon sesso sarebbe bastato al poeta per guarirlo dalla propria accidia; dietro tutti questi stereotipi si nasconde la radice profonda del rapporto controverso e mai risolto fra la cultura italiana e il pensiero intellettuale, la pigrizia della ragione che si giustifica adducendo alla riflessione e allo studio le peggiori conseguenze. Chi riflette, si interroga sul senso della cose imparzialmente, senza voler trarre da questo una visione pilotata che allevi la paura della solitudine di fronte alla morte, è comunemente considerato come colui che si rode delle proprie mancanze e le proietta sul mondo intero, e che in virtù di tale attività razionale è destinato a soffrire e vuol per questo portare pessimismo. L’odio per gli intellettuali e gli amanti di una scrupolosa conoscenza umana, quei noiosi parrucconi saccenti poco attraenti che rovinano la festa del vivere di illusioni con le loro verità non richieste, è il vero leitmotiv dell’educazione sociale italiana: in questo rifiuto di guardare le cose con occhio lucido, abbandonando ogni verità costituita per lasciarsi dirigere dal dubbio, approccio empirico e disinteressato alla realtà, c’è la grave spaccatura di un paese che abdicando a ogni criterio razionale è sprofondato in una dimensione atemporale ove si consumano i giorni intorbiditi senza pensare ad altro che a tirare avanti, alla medesima maniera di quella natura che pur di far perseverare la scintilla vitale crea incessantemente abbandonando poi le forme di vita che ha prodotto.
Dove la letteratura ha fallito nel nostro paese, forse può ancora riuscire il cinema, medium più diffuso e riconosciuto dal popolo italiano: l’accoglienza in sala di un’opera fondamentale come Il giovane favoloso sarà la prova definitiva della capacità del singolo di confrontarsi con la lucidità del ragionare e decidere una volta per tutte se tener chiusi o meno gli occhi. Ma anche che finisca male, qualora il più della gente scelga ancora l’oblio a un pensiero che richiede troppa onestà, umiltà e lealtà spirituale, trasporre in immagine la lotta per la verità di Giacomo Leopardi - la sua ostinata tendenza a voler conoscere il male che sta nella natura ed è insito nella vita e nell’animo di ogni essere umano - rimarrà un atto d’amore sincero, dal cinema alla filosofia, per un sapere che fa della consapevolezza il metro della dignità di ognuno di noi.