Creed - Morte e palingenesi di un mito
Boxare all'ombra del Mito: Ryan Coogler e Sylvester Stallone ci portano nella stirpe di Creed.
Un nuovo inizio che passa per immagini vecchie e riconoscibili, mitiche, caricate come un contenuto multimediale nella libreria di youtube, ben disposta ad ogni click a restituircele intatte – più o meno definite - su uno schermo che s’illumina da sé. Un mezzo contemporaneo che accoglie sia l’attualità - cretina o meno - sia il ricordo e la memoria disincrostata dall’inchiostro di un libro o sbiadita dal vetusto supporto Video Home System, analogico e perduto; un cloud che si unisce al fascio di luce di un proiettore, inondando di colori e ricordi un telo bianco da riempire con immagini di memoria collettiva e condivisa. Combattere come Apollo ed incassare come Rocky, in un quadrato limitato da corde tese ed angoli opposti, come i limiti di un frame in grado di contenere queste due figure mitologiche che appartengono alla Storia del cinema americano, in contenuti vintage su nuvole digitali, processi di sintesi mitologica, di metamorfosi ovidiana cinematografica, trasformazione e consegna del passato nel presente, tramite un nuovo corpo attoriale (Micheal B. Jordan) e tramite un nuovo sguardo registico (Ryan Coogler). Da padri a figli, personaggi di celluloide consanguinei come Apollo e Adonis, due facce di una mitologia classica in contrasto tra di loro, come peraltro suggerito dalla loro radice onomastica romana. Figure speculari, il primo già campione spodestato dallo Stallone italiano, Rocky, il secondo combattente d’adozione cresciuto in un riformatorio. Una rabbia trattenuta in un pugno mentre dentro ad una cella viene preso in affido da Mary Ann Creed (Phylicia Rashan), ed una vita passata nell’agio dentro una villa dove campeggia al suo ingresso la "C" che definisce una stirpe di combattenti, Creed, un cognome pesante da trasportare se si sceglie di ripercorrere le orme paterne, un’araldica da nascondere mentre si combatte nei peggiori ring di Tijuana e non solo. Sono le immagini riflesse nei gesti e nei movimenti del boxer a creare il movimento di un corpo nuovo, giovane, pronto a continuare la mitologia tramite l’iconografia del corpo dal muscolo teso, orientato verso una nuova mitologia moderna e contemporanea. Immagini in grado di tornare sullo schermo, sia come struttura di passaggio in filigrana tra il vecchio ed il nuovo, sia come imput adrenalinico (l’istantanea di Apollo durante il combattimento di Adonis) in grado di resuscitare il corpo dopo un colpo ben assestato. Attraverso gli allenamenti impartiti da Balboa, amico ed avversario del padre, Adonis, inizierà a muoversi come il pugile italoamericano, trascinato nell’ombra del coach, in una duale e riflessa rappresentazione di tecnica pugilistica. Un training a specchio, di Rocky in Adonis, imprinting di un mito morente in un giovane sembiante, modello di vigore fisico altrettanto mitizzabile.
Stallone padre ed interprete di Rocky contenuto in un corpo in fisico decadimento che porta con sé i tratti della fine e la necessità di un nuovo inizio. Mito in carne ed ossa, mito di cera che si consuma, mito costretto nella carne a sparire come corpo ma immortale come modello contenuto nelle immagini cinematografiche, glorioso ed eterno nel fascio di luce. Ryan Coogler struttura un ponte di passaggio tra il vecchio ed il nuovo, un’opera liminale e di transito, indefinibile ed inclassificabile appieno né come spin-off, né come reebot, né come sequel, né come remake, che oltrepassa queste categorizzazioni riuscendo a creare un nuovo camminamento nella continuità, un percorso che include tutte queste definizioni in un solo termine ancora da inventare, un neologismo necessario nel nostro panorama contemporaneo cinematografico così privo di nuova immaginazione e di nuovi modelli; una necessità, ad oggi, sia per reinventare una mitologia che per continuare a percorrerla. Una copia conforme del primo Rocky, fedele come un’opera figlia verso un’opera padre rivitalizzata nell’era del digitale, in grado di ricreare il mito senza denaturalizzarlo, che mantiene gli stessi tratti e le stesse caratteristiche genetiche, come un figlio appunto, ma appartenente ad un’altra, e successiva, generazione. Se il Balboa italiano porta con il senso di rivalsa dell’emigrato, il desiderio di riuscita nella terra/frontiera/ring del possibile e dei sogni realizzati e realizzabili tramite la lotta costante e corretta del pugilato; Adonis, è figlio del suo tempo, rappresentante di un agio borghese in lotta perenne con una società delle immagini e delle aspettative, rappresentante di una (ex)minoranza in epoca digitale pronta a raccontarsi in un’epica proletaria. Un corpo (sociale) che corre in quartieri diversi rispetto agli itinerari della Little Italy di Rocky, e che dietro di sé non trasporta un seguito di bambini e persone che inseguono il mito del riscatto, ma degli aggressivi e cool quad, simboli di una nuova era afroamericana, di un nuovo pubblico e di una nuova stratificazione (e gusto) sociale. Saranno le foto dei vecchi combattimenti vinti sul ring da Rocky ed appese sui muri del suo ristorante, saranno le locandine sbiadite stese sopra i muri ingialliti di vecchi spogliatoi a ricordare ed a incorniciare un mondo superato, un universo passato e di passaggio, sarà infine il corpo di Stallone, maschera inclusa nel passato tappezzato, modello e padre in ripiegamento, distorto e morente, appeso ad un ricordo melanconico di una generazione che è stata grande e vincente, a ricordarci il punto di partenza del mito, oramai pronto al passaggio del testimone. Coogler riesce a creare un filo d’unione tra varie figure, ognuna facente parte della propria generazione, unione duale di passaggio e sintesi tra la mitologia anni ’70/’80 e la nuova mitologia 2.0, rapporti in coppie cromosomiche, che partono da Stallone, prima campione e poi coach come lo era stato a suo tempo Mickey, fino ad arrivare alla coppia ad Adonis/Apollo, da Adriana/Bianca a Adonis/Balboa jr.
E come se non bastasse, la realtà extra cinematografica diventa cinema, passando dal personaggio di Stallone si intromette come un gesto di riconoscenza dentro un piano cinematografico divenendo un nostalgico e struggente gesto d’amore per un figlio realmente scomparso prematuramente, quel bambino che in Rocky 2 nei titoli è nominato con il nome di battesimo di Seargeoh Stallone, e che nel film ne riconosciamo la stanza, vuota, ed un foto, impolverata ma non dimenticata. A ricordarci che mai come in Rocky, la storia personale di Stallone, regista, sceneggiatore, attore, si interseca fedelmente con il piano squisitamente cinematografico e drammaturgico, in una commistione di vita, arte, mitologia del personaggio e mitologia dell’uomo, come in nessun’altro – forse qualcosa di simile possiamo rintracciarla nel cinema di Cassavetes - esempio del genere. Un cinema che si ricorda rifondandosi senza spezzare il cordone ombelicale che lo lega al passato, una mitologia che si rispecchia illuminando la faccia oscurata della luna, quel volto ancora non rappresentato, in grado oggi, di raccontarsi attraverso un’epica a tinte bianche su di un corpo nero.
La dedica finale allo scomparso , filantropo e produttore di Toro Scatenato e dell’intera saga di Rocky e non solo, è una nuova sottolineatura d’amore e di rispetto nei confronti di un altro tipo di paternità produttiva, è la fine di un’epoca e di una corrente, dalla Nuova Hollywood alla Hollywood digitale 2.0, in una continuità filiale di un legame ombelicale che spesso viene reciso, ma fortunatamente non è questo il caso.