Malmkrog

di Cristi Puiu

Cristi Puiu mette in scena I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo di Solov’ëv in un’opera di oltre 200 minuti, dove ai margini delle parole e dell’immagine preme un’incertezza irrisolvibile.

Malmkrog - recensione film puiu mubi

Una dacia soffocata sotto il biancore abbacinante di un paesaggio innevato della Transilvania è il teatro entro cui un gruppo di cinque aristocratici russi, nobili a vario titolo (mogli di generali, contesse, politici), trascorrono assieme una giornata ingaggiando un confronto serrato sulle cose universali e quelle dello Stato, sulle idee di bene e male, tutte fissate nell’orbita insindacabile di un riferimento evangelico e cristiano. Siamo dentro Malmkrog del regista rumeno Cristi Puiu: dentro perché sembra di vivere le immagini e le parole di una dimensione chissà dove confinata, il luogo di un’aristocrazia svuotata dei chiacchiericci e votata invece alla sola argomentazione di discorsi grandiosi, di un’impellenza parrebbe necessaria, e dove al di fuori non sta nulla o quasi, se non quel paesaggio innevato e desolato, una servitù che sussurra ai limiti dell’inquadratura o nella profondità dei corridoi, minuscola, e dove ogni gesto che alteri l’impalcatura granitica della parola viene rapidamente glissato. A 25 anni, Puiu aveva letto I Tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, teologo e filosofo russo tra i più grandi pensatori ottocenteschi, pervenendo soltanto ora alla sua grandiosa messa in scena cinematografica con un’operazione che per durata si attesta sui duecento minuti, superando le fatiche già esorbitanti dei lavori precedenti (La morte del signor Lazarescu, Aurora e Sieranevada superano tutti i centocinquanta minuti).

I cinque protagonisti trascorrono insieme la Vigilia di Natale da pranzo a cena, comunicando tra di loro in francese, ma virando sul tedesco quando devono scambiarsi informazioni di carattere più pratico o devono dare ordini alla servitù. Tutto risponde ai rigidi criteri del lignaggio e della cortesia; cortesia che a un tratto, a metà film, prende pure piede nell’argomentazione di uno dei commensali, il politico Edouard, come principio chiave per la realizzazione di una pace universale. Ma nel segno di quale civiltà? Di una eurocentrica, ovviamente, fortemente occidentalizzata, come proprio gli studi di antropologia di quel secolo suggerivano. Ma da qui, come anche prima, le ricche elucubrazioni finiscono sempre per scivolare in argomentazioni a carattere religioso (il discorso sulla grandezza e la necessità della guerra è, del resto, un discorso sulla sua santità, da rinnegare o sostenere). Delle sei sezioni di cui è costituito il film, ciascuna numerata e specificata col nome di uno dei personaggi, soltanto quella dedicata al servo Istvàn non intercetta l’oggetto divino. E non potrebbe essere altrimenti, perché al fondo dei Tre dialoghi sta la riflessione teologica di Solov’ëv, l’esigenza forte di specificare la propria posizione rispetto soprattutto a una forma di evangelismo tolstojano. Quando il personaggio più giovane, la bella Olga, interviene nei discorsi dei commensali, lo fa sempre in sostegno di una dottrina di bontà estrema e pacificata, respingendo la santità della guerra e qualsivoglia atto di aggressione persino contro coloro che si macchiano dei peccati più immondi, come per le orde di basci-buzuk di cui i personaggi leggono in una lettera del generale russo che li aveva combattuti. Sebbene alcuni di loro tentino di mediare la posizione di Olga, è Nikolaj, il proprietario della dacia che nei Tre dialoghi prende invece il nome di Signor Z., a tentare di trascinarla via dalla risolutezza stolta della sua posizione, con la dialettica più acuta e insistita del gruppo. E con più fermezza e intransigenza morale Nikolaj lo fa nella penultima sezione del film, proprio quella dedicata ad Olga, quando in riferimento alla parabola dei vignaioli e alla universalità della missione cristiana, sostiene che non vi possa essere realizzazione del Regno di Dio in Terra senza l’apoteosi dell’incarnazione e resurrezione di Cristo. È come se in Olga vi fosse quel principio di evangelismo tolstojano da espungere, svuotato della figura di Cristo e intriso di solidarietà posticcia e artefatta. In Nikolaj sembra esserci invece proprio Solov’ëv, con la teorizzazione della sua Divinoumanità e una visione radicalmente cristologica e messianica.

puiu

La densità ipertrofica delle parole determina che di queste immagini, perlopiù ferme e in piano sequenza, lo spettatore accolga tutte le variazioni minime. “Nessuna vuota verbosità morale ci difenderà dalla disperazione e dal pessimismo estremo”, dice a un tratto Nikolaj in prossimità della conclusione del film, dopo essersi pronunciato per l’ultima volta sulla imprescindibilità della risurrezione di Cristo. Per lunghi tratti sembra proprio che Puiu voglia giungere a questa considerazione. Soprattutto nella persona di Nikolaj e del divertito Edouard, gioca a costruire il senso delle loro convinzioni persuadendo gli altri con impostazioni apodittiche e scivolando spesso in calembour più o meno voluti. Allora può succedere che i cinque personaggi si guardino intorno, sospendano brevemente le lunghe discettazioni, si isolino su un balcone forse per piangere, di spalle alla cinepresa, oppure dal nulla si lascino svenire, come fa Olga al termine della prima parte.
Rispetto a questi dubitare e tacere e piangere brevilinei, l’inquadratura in Malmkrog aggiunge ulteriori variazioni che appaiono come casualità inessenziali, ma inevitabilmente assorbono l’attenzione dello spettatore. Durante il pranzo, in un piano fisso che inquadra simmetricamente la tavolata e la supera nella profondità di campo del corridoio, una bambina fa per dirigersi allegramente verso gli adulti ma una cameriera le corre dietro e la riacciuffa, riportandola silenziosamente nel fuoricampo. È il fuoricampo delle cose invisibili che premono contro i margini e fanno vibrare l’immagine, come se solo allora Malmkrog si aprisse a una vertigine, a un senso da ridestare (ecco la “vuota verbosità morale” delle parole di Nikolaj). Poi, di colpo, dalle belle parole di Edouard sulla funzione di civilizzazione cortese e universale dell’Europa su tutto l’ecumene, ecco un vociare confuso e inatteso che si fa strepito, quindi un clangore. I nobili sospendono curiosi il loro thè e si affacciano nell’atrio. La violenza irrompe fragorosa da ogni lato – di nuovo, però, non vista – nella forma di un mitragliamento convulso che uccide tutti.

Ma siamo solo alla metà del film. Tutti tornano, passeggiando sulla neve di un cortile pacificato, come se nulla fosse davvero successo. Di più, come se fossero stati partecipi di quella risurrezione auspicata, in cui si dovrebbe risolvere il mondo vuoto della parola confusa e di cui invece nessuno ha consapevolezza. Per tornare alla parola labirintica. Un piccolo quadretto in un salotto mostra la cartina dei Sette ponti di Königsberg: un noto problema matematico affrontato da Eulero; un’immagine, di nuovo, che esplica l’insolubilità e inestricabilità del dubbio. Il dubbio di Puiu, della parola svuotata nel secolo nuovo dal livellamento morale (“se questo è il nostro Dio, allora è solo il Dio di questo secolo”), forse anche il dubbio del Cinema e delle sue immagini.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 27/04/2021
Bosnia-Herzegovina, Romania, Serbia, Svezia, Svizzera 2020
Regia: Cristi Puiu
Durata: 201 minuti

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