Creatura del diavolo
Terzo tassello della trilogia Hammer dedicata alla stregoneria, il film di Cyril Frankel precorre i tempi del folk horror mettendo in campo una serie di topoi narrativi che faranno scuola.
Dopo un periodo di gloria, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il filone folk horror è stato sempre meno frequentato e ingiustamente relegato al ruolo di figlio minore della cinematografia dell’orrore; contrariamente a quanto è accaduto al genere gotico “classico”, che invece ha goduto e continua a godere in sala di un discreto successo commerciale, grazie al contributo di autori appassionati del calibro di Tim Burton e Guillermo del Toro. Questo fino a dieci anni fa circa, quando una nuova leva di registi indipendenti ha risvegliato l’interesse del pubblico e della critica nei confronti di un genere ritenuto ormai morto e sepolto, dando vita a un vero e proprio revival con film come: Kill List e A Field in England di Ben Wheatley, For Those in Peril di Paul Wright, The Witch e The Lighthouse di Robert Eggers e il recente Midsommar di Ari Aster. Se a livello letterario sappiamo che le radici culturali da cui vengono tratte la maggior parte di queste storie si perdono nella notte dei tempi, nei racconti orali, nei culti autoctoni delle prime comunità rurali e nelle paure ataviche dei nostri antenati, quello su cui si continua a dibattere è su quando sia nato effettivamente il folk horror a livello cinematografico.
Il primo a coniare l’espressione è stato il regista Piers Haggard, intervistato nel 2004 a proposito del suo cult La pelle di Satana, uno dei tre capisaldi, insieme a Il grande inquisitore del compianto Michael Reeves e The Wicker Man di Robin Hardy, che compongono la cosiddetta “Unholy Trinity”, ovvero il nucleo concettuale intorno al quale si sviluppa la definizione del folk horror per come lo intendiamo ancora oggi. È indubbio che a questi titoli spetti di diritto l’etichetta di “classici” ma è altrettanto vero che i primi esperimenti nell’ambito risalgono a molto prima, per alcuni addirittura intorno alla fine degli anni cinquanta con il film La notte del demonio di Jacques Tourneur – impregnato del fascino ancestrale della campagna inglese – ma soprattutto con la famigerata miniserie televisiva della BBC The Quatermass e The Pit, un mix di scifi, horror e suggestioni folk firmato dal celebre autore Nigel Kneale (Halloween III: Season of the Witch). Lo sceneggiatore inglese è una vera e propria autorità nel panorama thriller/fantastico e in quanto tale è anche uno storico collaboratore della Hammer Productions, che lo recluta nel 1966 per sviluppare l’adattamento del romanzo best seller The Devil’s Own, una storia moderna di streghe e voodoo scritta da Norah Lofts sotto lo pseudonimo di Peter Curtis e pubblicato nel 1960.
Il film in questione è Creatura del diavolo, un thriller pastorale – tutto al femminile – dagli echi hitchcockiani, giocato sul filo tra scetticismo e superstizione, che amalgama alcuni dei temi più in voga del momento: le streghe, la sessualità e il paganesimo, sulla scia del successo riscosso da pellicole coeve come La maschera del demonio di Mario Bava, La notte delle streghe di Sidney Hayers e Witchraft di Don Sharp. D’altronde gli anni sessanta, come cantava Donovan, inaugurano “la stagione delle streghe” (e degli stregoni), che imperversano sia al cinema che nelle piazze, complice da un lato l’impatto del movimento femminista che le elegge paladine della lotta al patriarcato e della rivoluzione sessuale in atto; dall’altro in quanto il rinnovato interesse della controcultura giovanile verso l’occultismo e il soprannaturale, come testimonia l’influenza culturale esercitata dalle opere dell’esoterista Aleister Crowley su molti artisti (Kenneth Anger su tutti).
Diretto da Cyril Frankel regista del controverso Corruzione a Jamestown e interpretato brillantemente dalla star hollywoodiana Joan Fontaine nel ruolo della vulnerabile protagonista, Creatura del diavolo si distingue immediatamente dai suoi predecessori per essere uno dei primi esempi di film horror a non essere ambientato in un passato arcaico ma nel presente. Un presente cinematografico in cui il terrore non si annida più nei lugubri castelli infestati dagli spettri ma si manifesta alla luce dell’apparente idillio bucolico dei silenziosi villaggi anglosassoni; dove dicerie, sussurri e antiche credenze popolari alimentano un forma di terrore più verace e insidioso, perché sotterraneo e dunque invisibile agli occhi di chi prova a sondarlo. Come accade all’ignara protagonista della storia: Miss Mayfeld, una timida insegnante sull’orlo di un esaurimento nervoso che tornata in patria, dopo un traumatico soggiorno in Africa, funestato da minacciosi riti tribali, decide di accettare un lavoro in una modesta scuola di campagna. Lontana dalla civiltà, la donna si trova invischiata di nuovo in una serie di sinistri eventi che rischiano di minare la sua sanità mentale, fino a quando il rapimento di una sua studentessa non la costringerà a indagare su dei misteriosi omicidi rituali che coinvolgono gli abitanti del pacifico paese di Haddaby e ad affrontare, da sola, una sordida congrega di streghe fuori controllo, dedita a sacrifici umani.
Meno orientata a mostrare l’orrore in senso stretto ma più interessata a suggerirlo sotto mentite spoglie, la regia di Frankel costruisce metodicamente un racconto basato sostanzialmente su un clima reiterato di tensione e sospetto che serpeggia costantemente negli sguardi e nei dialoghi dei protagonisti, a partire dal suggestivo antefatto del rito voodoo iniziale, passando per la claustrofobica prigionia della protagonista in una casa di cura e fino all’esplosivo, coreografico e sgargiante sabba finale. Questo mentre la sceneggiatura di Kneale, fedele al romanzo, mette in risalto i risvolti psicologici, valorizzando al massimo la performance della Fontaine che si dimostra perfetta nell’incarnare la “quieta isteria” del suo personaggio, attorno a cui ruota tutta la narrazione. Una donna costretta a combattere contemporaneamente contro i demoni del passato che la tormenta e quelli di un futuro incerto che le viene di nuovo strappato dalle stesse forze malefiche che la perseguitano, ovunque provi a fuggire. A dimostrazione che la paura non ha bisogno di coordinate precise per manifestarsi ma vive costantemente al nostro fianco, nell’incapacità di affrontare quello che stiamo vivendo. Tanto è vero che, solo quando la protagonista si ribella alla sua condizione di succube, sabotando la missione della strega, riesce a ottenere finalmente la tanto agognata pace. Famoso per essere stato l’ultimo grande ruolo sul grande schermo della Fontaine, il film offre comunque una moltitudine di volti familiari agli spettatori, tra cui spiccano quello di Kay Walsh e Alec McKowan nei panni dei due ambigui fratelli a capo della comunità di Haddaby.
Nonostante i prestigiosi nomi coinvolti nel progetto, Creatura del diavolo è considerato uno dei titoli minori della filmografia Hammer, forse perché il meno cruento o forse perché messo in ombra dal più eclatante The Devils Rides Out di Terence Fischer con Christopher Lee. In realtà il lavoro di Frankel rappresenta uno spartiacque per il cinema horror del periodo, in quanto sancisce il lento ma inesorabile passaggio dall’epoca del gotico rivisitato (e abusato) degli anni sessanta a quella del folk horror che spopolerà nel decennio successivo. Infatti il film è il terzo tassello del nuovo ciclo della piccola casa di produzione britannica, dedicato al mondo dell’occulto e della stregoneria - sotto tutte le latitudini - iniziato con il seminale zombie movie La lunga notte dell’orrore e proseguito con l’esotico La morte arriva strisciando, entrambi diretti da John Gilling nel 1966. Un trittico tra i più originali e influenti a cui non è ancora riconosciuto del tutto il merito di aver precorso i tempi. Eppure ognuna di queste opere condivide una comune topografia dell’orrore, incentrata su una serie di topoi narrativi che faranno scuola, tra cui: l’ambientazione rurale ed isolata, un generale senso di isolamento (vero o presunto), la contrapposizione tra singolo e comunità, il riferimento a tradizioni, leggende, politiche identitarie. Tutti tratti distintivi che rendono obbligatoria la visione di questi film sia per gli amanti dei classici sopracitati; sia per tutti coloro che desiderano approfondire un genere tanto vasto, quanto affascinante come quello del cinema horror legato al folklore.