I disertori - A Field in England
Echi folk horror attraversano il terzo film di Ben Wheatley, regista fuor di etichette e categorie, se non l’intento a raccontare l’uomo e il suo corpo attraverso il conflitto e il rapporto con lo spazio.
Il magazzino fatiscente di Free Fire, in cui dei trafficanti d’armi danno vita a una sparatoria; il tunnel claustrofobico di Kill List, che conduce due killer professionisti al bosco in cui si sta consumando un rituale abominevole; le stanze asettiche, l’ascensore, i corridoi del condominio in High-Rise - La rivolta, film tratto dall’omonimo romanzo di James Ballard, tradotto in Italia come, appunto, Il condominio, dove, ben prima de Il buco, i residenti dei piani bassi affrontano i piani alti per il dominio della struttura.
Gli spazi – verticali/orizzontali, aperti/claustrofobici – hanno uno ruolo centrale nella poetica di Ben Wheatley, regista britannico difficilmente (fortunatamente) etichettabile, capace di tracciare un perimetro geografico e delle precise geometrie all’interno delle quali sfumare i confini tra i generi, ibridare stili e contenitori, indagare l’identità dei personaggi. Così, anche questo I disertori – A Field in England, suo terzo lungometraggio per il grande schermo, pone le proprie coordinate spaziali sin dal titolo, spostando ancora prima dell’inizio del film l’attenzione dello spettatore sul vasto campo inglese dove convergono le storie di quattro soldati in fuga dal campo di battaglia (siamo nel pieno della Guerra civile inglese) e sul quale sembra aleggiare un’aura mistica: al centro del campo è infatti installato un palo di legno attorno al quale è arrotolata una lunga fune a cui è legato O’Neill, un mago che, non appena svegliatosi, assume il comando del gruppo tra sevizie, prepotenze, torture e sortilegi per trovare un tesoro che in quel campo dovrebbe essere sepolto.
Fotografato in un bianco e nero tenue, tra l’horror, il dramma, la commedia, stasi oniriche e improvvise esplosioni di violenza (a cui il regista ha da sempre abituato il suo pubblico), A Field in England conferma la tendenza di Wheatley alla ricerca di un cinema del corpo e soprattutto del conflitto, declinato in particolar modo al maschile, in cui l’azione è funzionale solo nel momento in cui lascia trasparire le dinamiche di potere che continuano a variare lungo la narrazione, o la natura dei protagonisti che, come in ogni suo film, oscilla sempre sul confine tra animalità (ogni pellicola si risolve nella lotta, nel desiderio di sopraffazione dell’altro) e civilizzazione (i protagonisti lottano per salvaguardare la propria famiglia, per affermare dei valori, per mantenere intatta la propria posizione sociale o per migliorarla): in questo caso, i protagonisti sono degli uomini-bestia che defecano tra le ortiche o si orinano addosso, sono al contempo virili e impotenti, iper-maschili e vigliacchi, creature smarrite in un mondo folk pagano e brutale che tentano goffamente di lottare contro un male più grande (incarnato dall’alchimista O’Neill e dalle visione minacciose causate, probabilmente, dai funghi allucinogeni sparsi nel campo) che non comprendono e dal quale non sembrano in grado di difendersi (in tal senso, è emblematica la lunghissima scena lynchiana in cui O’Neill trasforma Whitehead in una sorta di cane per scovare il tesoro).
A far da sfondo, il campo, o meglio, un campo, qualsiasi campo in Inghilterra, luogo scarno, neutro e distante che può tanto offrire riparo quanto ostacolare il cammino, palco su cui mettere in scena la lotta tra bene e male, una lotta che Wheatley mostra senza manicheismo o facili opposizioni tra i personaggi, cercando piuttosto le paure e i drammi in ognuno di loro, quella fragilità che li accompagna fino alla fine del film, favola nera che, come tutte le favole, si conclude con una considerazione morale (ma non moralista) sul valore e il potere dell’amicizia come unico strumento di elevazione da un mondo carnale e violento. Ancora una volta, orizzontale/verticale.