Takara - La notte che ho nuotato
Interessante caso di slow cinema, "Takara" è un'opera che vive di dilatazioni, di puro godimento del semplice svolgersi delle cose.
È un film breve (meno di 80 minuti) ma fascinosamente dilatato, Takara – La notte che ho imparato a nuotare, opera a quattro mani realizzata da un insolito duo franco-nipponico, composto da due giovani registi selezionati e apprezzati nei grandi festival internazionali: Damien Manivel, autore con alle spalle diversi cortometraggi e due lunghi (Un jeune poète e Le parc) e Kohei Igarashi, creatore di Hold Your Breath Like a Lover, in concorso a Locarno diversi anni fa nella sezione Cineasti del presente.
Dilatato, si diceva, in virtù di una certa tendenza a godere della durata dell’inquadratura e della generale distensione ritmica, riconducibile ad un montaggio modico, limitatissimo, alla camera fissa e ai prolungati silenzi (i dialoghi sono del tutto assenti); e quindi audace nella relazione tutt’altro che consueta che cerca con lo spettatore, come certo slow cinema a cui alcuni grandi autori (Lav Diaz, Tsai Ming-liang, Chantal Akerman, Pedro Costa, Béla Tarr, Andrej Tarkovskij, Nuri Bilge Ceylan, Šarūnas Bartas, Lisandro Alonso e molti altri) hanno nel tempo abituato i cinefili di tutto il mondo.
Un'affinità, quella tra Takara e molte delle opere realizzate dai succitati cineasti, che – è bene precisarlo – riguarda, esclusivamente, una comparabile concezione del tempo e del ritmo della (non) narrazione, un’analoga concezione del cinema come dispositivo capace di imporre la durata, di imprimere lo scorrere del tempo nello schiudersi dell’immagine, di scolpirlo, come avrebbe detto Tarvoskij.
Nel raccontare la singolare giornata di un bambino ritrovatosi accidentalmente alla scoperta dei dintorni della sua casa, tra le montagne innevate del Giappone, per via del senso di solitudine in cui l’assenza del padre lo ha relegato e di un coraggioso tentativo di ricongiungersi con lui al mercato del pesce in cui lavora sin da tarda notte, il film di Manivel e Igarashi si sofferma deliberatamente sui momenti drammaticamente più marginali, quelli che potremmo definire i tempi morti del racconto: i lenti spostamenti a piedi (che fanno pensare, pur con tutt’altra estetica e più radicale sperimentazione, alle interminabili passeggiate sotto la pioggia di Sátántangó), le sigarette fumate e le patatine sgranocchiate nella casa silente, all’alba, un mandarino sbucciato con la calma serena dell’infanzia.
È un cinema, questo, che mette a dura prova lo spettatore assuefatto ai fast cut, all’azione frenetica e sfavillanti effetti speciali, chiedendogli, piuttosto, di imparare a star dentro quadri filmici semplici, svuotati da ogni spettacolarizzazione e persino drammatizzazione, di godersi il puro svolgersi delle cose, istante per istante. Con l’azzardo consapevole di flirtare con la noia o meglio con la deliberata intenzione di farne buon uso, essendo l’otium, come inteso dai nostri ben più saggi avi, uno spazio di liberazione dalle frenesie mondane, di esplorazione dell’interiorità, di contemplazione. Che è poi ciò che consente agli occhi di vedere le cose in tutta la loro quiddità, nella loro esistenza più vera, affrancata dalle deformazioni del pensiero. Cinema del nulla (il “Mu” inscritto sulla lapide di Ozu, uno dei grandi precursori nipponici, insieme a Mizoguchi, dello slow cinema), cinema che non fa violenza al pensiero incalzandolo e ingabbiandolo tra le maglie di fitti intrecci di avvenimenti, cinema della mindfulness.
In questo (r)allentamento delle tensioni drammatiche, in questa assenza di elementi di distrazione dall’immagine e dalla sua durata, lo spettatore può così sperimentare un accrescimento della propria sensibilità, un potenziamento della capacità percettiva, il godimento del cinema pienamente dispiegato, non più asservito alla dittatura dell’intrattenimento.