The Danish Girl
Melodramma di rivendicazione gender sublimato in un'estetica pittorica di stampo impressionista
Già Francois Ozon col suo Una nuova amica aveva messo in scena, parlando al tempo presente, la necessità di un lutto esistenziale di demarcazione, nonché l’indispensabilità di un premuroso modello, specchio femminino, nella vita di una persona transessuale, al momento cruciale del passaggio pubblico alla sua più autentica identità, sia nell’animo che nelle sembianze fisiche. E anche, a modo proprio, già ne aveva sottolineato la maternità surrogata, esternata di riflesso da chi affianca, difende e rinuncia a sé, in questo auto-concepimento. Presenza incondizionata, che può darsi solo nell’amore che trascende il corpo e coglie l’anima, convenzionalmente incarnata, anche quando sopita, in attesa di essere (ri)tratta alla luce.
Amore incubatrice che (ri)genera vita alla vita.
E proprio il ritratto, nel senso artistico di interpretazione autoriale della figura umana su tela, è la prima rivelazione genetica di questo medesimo eroico amore, cuore pulsante di The Danish Girl, adattamento dell’omonimo romanzo di David Ebershoff firmato dal premio Oscar Tom Hooper e presentato in Concorso a Venezia 72.
Hooper ancora una volta restituisce affascinanti scenari e costumi d’epoca, gli anni venti a Copenaghen e a Parigi; ancora una volta attinge dalla parabola biografica di un uomo d’eccezione, un marito in apparenza profondamente fragile, il paesaggista Einar Wegener (sullo schermo Eddie Redmayne); di una donna, sua moglie, audace anticipatrice dei tempi, l’acclamata pittrice Gerda Gottlieb; ed infine di ancora un medico demiurgo, che in contrasto con la scienza e la deontologia corrente, porta avanti la prima chirurgia di riassegnazione del sesso.
Non a caso Hooper sublima il suo melò di rivendicazione transgender con ascendenze pittoriche impressioniste. Come prescindere, inquadrando una storia di emancipazione della bellezza umana, da quella fondamentale, prima rivoluzione dell’arte moderna, che si fece resistenza alla coincidenza con la “natura accademica”, inalterata e impassibile; che si fece fede nell’imperscrutabile soggettività dell’artista, che portò en plein air, allo scoperto, l’abisso della sua interiorità?
Così se Einar dipinge ossessivamente l’inverno di una palude, quella gelida infamia e vergogna, che suo padre sancì, stroncando il primo bacio all’amico d’infanzia, al contrario Gerda risveglia la musa del suo più grande successo professionale, proprio nel volto delicato del marito dormiente, e vi riconosce Lilli, quell’alter ego, che lei stessa confida di aver presentito, baciando Einar la prima volta, come se, incompiuta, avesse baciato se stessa.
La personalità di Lilli, ridestata agli impulsi e alle passioni, dapprima solo come un gioco erotico, ben presto rivendica al corpo di Einar la sua sofferta e agognata conversione sessuale e nella conflittualità della ragione, mai come ora così vitale, manifesta persino la prepotenza simbolica del ciclo mestruale (una dolorante epistassi mensile).
Il suo stato irrevocabile di donna. Per ogni amante, come per ogni madre che si rispettino, sopraggiunge il tempo di lasciar camminare con le proprie gambe la propria creatura, foss’anche lasciarla andar via, sola, lontano. E questa volta Lilli lo rivendica a Gerda, pur se nella comune consapevolezza che sarà incontro alla morte. Quel lutto vitale, cui si accennava in principio, peccato originale della conoscenza del sé, in una neo-genesi, di cui la reale Lilli Elbe è stata la prima Eva della storia. Perché è la Lilli di Hooper ad affermare: “Dio mi ha creata donna, è la natura che ha sbagliato!”.