Jason Bourne
Il Bourne di Greengrass e Damon è ormai cinema di genere purissimo, ritratto del mondo contemporaneo rivitalizzato da un racconto di puro movimento.
Senza troppo esagerare potremmo trovare nel blockbuster di Hollywood un prima e un dopo Jason Bourne, personaggio sempre più astratto nel suo aderire a delle semplici, purissime, coordinate di genere. Quello interpretato da Matt Damon – e chi se non lui? trasformista del quotidiano e perfetto volto neutro su cui proiettare i caratteri del contemporaneo – è infatti un personaggio di pura azione, e in quanto tale agente di un cambiamento linguistico di cui oggi Hollywood porta ancora, evidentemente, i segni.
Il punto di riferimento a riguardo è il capitolo del 2004, The Bourne Supremacy, che non solo perfeziona la formula di azione e spessore psicologico dal sapore esistenzialista, ma innerva tale visione all’interno di un linguaggio che fa del movimento e della violenza iperrealista i suoi caratteri principali. Da qui il cinema di Paul Greengrass – camera a mano, montaggio frenetico, movimento constante – eserciterà nei restanti anni Duemila un’influenza sul blockbuster d’azione simile a quella che ebbe per l’action anni Ottanta la figura di Tony Scott, altro regista dedito ad un cinema esercitato come puro movimento, ma declinato lì nei termini del montaggio musicale e dell’immagine più lucida. Non a caso l’ultimo Scott supera la superficie per manifestare l’evoluzione di un iperrealismo figurativo, per quanto Greengrass conservi una capacità unica nell’unire la violenza tattile del digitale più ruvido alla velocità assoluta di una corsa incessante. Gli stessi caratteri che troviamo riproposti ed esaltati dentro il nuovo capitolo del franchise, intitolato ontologicamente Jason Bourne.
Quarto film della coppia Damon/Greengrass (ai Bourne bisogna infatti aggiungere la buona variazione sul tema di Green Zone), Jason Bourne si apre con le immagini inequivocabili del corpo invecchiato del suo protagonista, eroe mai così ipertrofico ma al tempo stesso vittima dei primi, evidenti, segni del tempo.
A parte l’ambigua agente informatica interpretata da Alicia Vikander, tutti i personaggi appaiono anzitutto corpi fuori tempo massimo: vale per il killer di Vincent Cassel, vale per il direttore della CIA Tommy Lee Jones, vale sicuramente per Bourne, inchiodato in un ricordo d’infanzia da cui si dipana una corsa a ritroso verso le proprie origini, ormai ricordate ma tutte da decifrare.
Attorno a questi caratteri ristagna allora un’aura crepuscolare da fine delle cose, una decostruzione che da lontano potrebbe ricordare il corpo invecchiato di Daniel Craig e il suo ruolo dentro Skyfall, vera rappresentazione della crisi e palingenesi del mito. Greengrass però è regista troppo aderente alla fisicità del reale, intenzionato com’è a rappresentare il mondo attraverso l’azione, per portare il suo film sui binari della riflessione metacinematografica; e tuttavia Jason Bourne racconta in qualche modo il perdurare di un corpo e di un mito oltre il tempo e la sua evoluzione, racchiudendo in sé la parabola di un uomo intento a completare sé stesso e il suo ruolo nel mondo attraverso la riscoperta del passato.
Il tratto peculiare di Bourne è la sua psicologia introspettiva, poco incline alla narrazione di sé e determinata piuttosto a risolvere ogni sfida attraverso l’azione. In questo episodio Greengrass – affiancato in fase di scrittura dal suo montatore storico, Christopher Rouse – porta all’estremo tale attitudine, con la novità importante di voler incastrare questa specifica all’interno di un racconto che unisca tra loro diversi punti critici dei nostri giorni.
Ecco così che la realtà preponderante di Greengrass prende la forma di hacking e fughe di notizie, Snowden e Wikileaks, si ritorna sui fantasmi digitali di Blackhat e sui colossi social fondati da emuli di Zuckerberg. Tuttavia rispetto al passato il quadro generale risente l’intenzione programmatica di tenere assieme elementi così specifici, e il film trasuda una certa artificialità nella sua progressione, faticando a ritrovare il perfetto bilanciamento dei due capitoli precedenti. Però, assodate pure quest’incertezze, Jason Bourne resta un film dalla forza espressiva innegabile, un ritratto del mondo contemporaneo rivitalizzato dalle griglie del genere e teso tutto a restituire il più elevato tasso adrenalinico possibile. Prima di questo solo l’ultimo straordinario Mad Max di Miller aveva affidato tanto della sua essenza al puro movimento, alla forza cinetica di un’immagine di cui ora diventa impossibile cogliere l’intera struttura, tanto è complessa ed esasperatamente dinamica la sua costruzione. Dopo lo splendido Captain Phillips - Attacco in mare aperto, Greengrass si conferma uno dei più grandi registi di genere in circolazione.
Il suo è un cinema davvero purissimo.