Il codice del babbuino
Alfonsi e Malagnino, tra i fondatori del collettivo Amanda Flor, tornano con un film capace di riportare il cinema ad una materialità viscerale, attraverso il loro sguardo acuto e moralmente vitale.
«Non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraverso la città» scrisse enrico ghezzi. Il duo composto da Davide Alfonsi e Denis Malagnino è senz’altro di questa specie, due marziani iconoclasti che il cinema lo farebbero anche solo con gli specchietti di una vecchia Citroën Saxo, a qualsiasi costo o per meglio dire anche a costo (quasi) zero. Il codice del babbuino, l’ultimo lavoro dei due registi e sceneggiatori, tra i fondatori nel 2004 del sorprendente Collettivo Amanda Flor – oggi trasformatosi nella società Donkey’s Movie – non smentisce le aspettative di un cinema senza compromessi, eroicamente distante da qualsiasi moda e animato unicamente dalla voglia di raccontare un’umanità autentica e dolente.
Il codice del babbuino è ispirato a uno stupro realmente avvenuto a Guidonia, comune romano in cui vivono Alfonsi e Malagnino, e alle conseguenti tensioni incendiarie che sono sorte nella comunità locale. Da questo clima in cui, dice Alfonsi, «regna l’idea che si possa privatizzare la giustizia» il film prende l’avvio raccontando la storia di Tiberio, il quale, dopo aver scoperto che la propria ragazza è stata violentata nei pressi di un campo rom, salta subito alle conclusioni e decide di farsi giustizia da sé. L’amico Denis (interpretato da Malagnino stesso), padre e marito indebitato fino al collo tanto da essere costretto a spacciare droga per mantenere la famiglia, lo dissuade e i due iniziano un’infernale odissea notturna sulle tracce dei responsabili. L’incontro con il Tibetano, bizzarro boss del quartiere, ribalta gli equilibri all’interno della coppia, portando la situazione alla deriva.
Macchina a mano, attori non professionisti, suono in presa diretta senza troppa cura per il missaggio, illuminazione ridotta al minimo, piani talmente stretti da imprigionare i volti, e la brutale campagna dell’estrema periferia romana come unica, eterna ambientazione che inghiotte i due protagonisti tra i suoi abissi. Il cinema dei registi guidoniani è un cinema nudo e crudo come quel mondo da cui si lascia permeare, in una nuova preistoria ripresa questa volta di notte e per lo più in auto. Una notte che corrode e corrompe, dipanando una storia di deformazione al cui centro la partita per accaparrarsi l’anima di Tiberio, diviso tra i consigli del saggio Denis e le tentazioni del mefistofelico Tibetano. Scartata l’ipotesi di una redenzione, tutti vengono trascinati in un torrente di precarietà e istinti primari che non risparmia nessuno, mentre del sacrificio resta solo il peso delle sue conseguenze da trascinarsi fino alla fine dei giorni, come un auto in panne.
Siamo di fronte un esempio di cinema acuto, moralmente vitale ed energico – nonché dalla lapidaria ironia – in quanto capace di omaggiare e mettere in moto, rimasticandolo per sputarlo con veemenza, tutto un immaginario cinematografico, posto come termine di paragone per uno scarto significativo verso la realtà rappresentata. Il Tibetano si confronta con i suoi modelli, cita il Tony Montana di Scarface (nel corso di una diatriba per decidere se attribuire la paternità del film a Scorsese o a De Palma) e vi si riconosce compiaciuto, senza riconoscere al contrario il gap incolmabile tra la squallida quotidianità di cui fa parte e i sogni di gloria – almeno secondo la sua visione – di quella criminalità rappresentata sullo schermo. Modelli che non a caso finiscono con l’equivalersi in un processo indifferenziante – Scorsese e De Palma diventano la stessa cosa – messo in moto da una bulimia anestetizzata che riconduce il cinema, come fanno del resto sacrosantamente gli ex Amanda Flor, alla materia escrementizia (si veda, tanto per fare uno degli esempi più estremi, la loro web serie The Marduk’s). Del resto, per vantare la sua cultura cinematografica, il Tibetano afferma «….io quando vado al cesso leggo sempre il Mereghetti».
Il codice del babbuino trasuda anche in questo tutta la gran voglia di fare cinema di Alfonsi e Malagnino, i quali hanno dimostrato per l’ennesima volta di saper tradurre la scarsità dei mezzi in un sinonimo di libertà creativa.