Demon
L'ultimo film di Marcin Wrona getta uno sguardo sull’oscuro passato recente della Polonia, in un’opera sul tempo, il ricordo e la colpa.
Nel Talmud babilonese [Kethuboth 111a] è indicato che chi verrà sepolto in luogo impuro, cioè lontano dalla terra d’Israele, non potrà beneficiare della resurrezione e conseguentemente del giudizio divino, rimanendo in una sorta di limbo per l’eternità. Di fatto, tale condizione sospesa non caratterizza soltanto la dimensione spirituale e religiosa, ma anche e soprattutto quella storica, antropologica ed esistenziale delle varie tribù ebraiche, disperse dalla propria terra d’origine fin dall’VIII secolo a. C., dapprima durante l’espansione dei regni di Babilonia e, parecchi secoli dopo, in seguito alla conquista romana. Il popolo ebraico diviene apolide sotto la spinta centrifuga di forze esterne, pur mantenendo un contatto molto stretto e intenso con la propria cultura originaria e le proprie radici geografiche, e si trasforma, nel corso del tempo, in una sorta di grande fiume con mille rivoli e affluenti, dispersi, certo, in direzioni diverse e con destini difformi, ma anche in grado di riallacciarsi idealmente alla corrente principale. Disseminati ai quattro angoli della terra, per decine di secoli e centinaia di generazioni gli ebrei vivono la duplice e ossimorica condizione di “ospiti autoctoni” nelle varie nazioni in cui trovano rifugio, custodendo con fierezza la propria identità e tuttavia riuscendo anche ad integrarsi con le comunità che li accolgono. Quindi, di volta in volta, essi sono tedeschi, polacchi, russi, spagnoli o portoghesi, eppure sempre e soprattutto irriducibilmente ebrei, pertanto segnati dalla propria unicità identitaria e culturale, nonché soprattutto dalla nostalgia per una Patria (nel senso letterale di terra dei padri) assente, o magari vivificata sotto forma di proiezione spirituale e mitica.
La Polonia rappresenta probabilmente la nazione che più di ogni altra ha saputo dare agli ebrei immigrati una seconda opportunità e una seconda casa, ed è qui infatti che, a partire dal XVIII secolo, comincia a svilupparsi il chassidismo, fortemente connotato da quella che si potrebbe definire una vera e propria “cultura dell’esilio”. Il chassidismo ashkenazita rielabora e adatta i precetti base dell’ebraismo in funzione di una rilettura vitale della cattività, teorizzando l’immanenza di Dio, la sua presenza in ogni cosa e in ogni luogo, quindi consacrando la totalità del mondo, e per ciò stesso temperando il restrittivo principio talmudico che escluderebbe dalla resurrezione chi è sepolto lontano dalla terra d’Israele. Il chassidismo non dimentica l’esilio, ma ne dà una rilettura meno aspra, che non oblitera la diaspora, ma ne consente una consapevole accettazione attiva. Gli orrori del XX secolo, in primis la Shoah, renderanno però attuale una nuova desacralizzazione/sconsacrazione del mondo e riporteranno il popolo ebraico alla propria tragica dimensione di hostis (nell’accezione di straniero, ma anche di nemico), ghettizzato e prossimo all’annichilimento totale.
Ultimo lungometraggio del giovane regista polacco Marcin Wrona, prima del suo inaspettato suicidio a pochi giorni di distanza dall’uscita del film nelle sale, Demon segue proprio il fil rouge che lega la Polonia alla cultura ebraica – un horror, quindi, solo in senso lato, giacché il vero orrore alberga nelle pieghe dell’immagine, del tempo e della Storia, o magari nell’animo oscuro dei personaggi – e sceglie come spunto narrativo una storia di fantasmi, che vede protagonista un demone caratteristico proprio del chassidismo, il dybbuk.
Secondo la tradizione, si tratta dell’anima di un trapassato a cui non è stato concesso l’ingresso nello Sheol, l’oltretomba, e che pertanto vaga sull’incerto confine che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, senza appartenere a nessuno dei due e in attesa di appropriarsi dell’identità di un vivente, tramite possessione, per poter portare a compimento il proprio destino lasciato sospeso. Oltre a costituire, quindi, una figura dal sicuro fascino sovrannaturale, il dybbuk, sorta di “spirito dell’esilio”, sembra delineare anche, tramite una tutt’altro che latente metafora, la condizione storica dell’ebreo, costantemente in bilico fra lo stato di autoctono e quello di alloctono: duplicità identitaria irresolubile, condizione liminare di colui che si trova sulla soglia fra due mondi senza poterla mai varcare del tutto nell’una o nell’altra direzione.
Gran parte dello sviluppo drammaturgico di Demon si gioca sul conflitto fra apolidia e radicamento, fra comunità e individualità, fra ospitalità e sospetto verso l’estraneo, fra regola e libertà (di parlare, di muoversi, di pensare e agire, magari di sentirsi a disagio, di sentirsi morire dentro, anche in contesti in cui magari è prevista una “istituzionale” giocondità). Del protagonista Piotr/Peter (l’attore israeliano Itay Tiran) si sa poco o nulla, salvo il fatto che ha origini polacche, e forse anche ebraiche (Wrona dissemina il film di piccoli indizi che conducono a rendere verosimile tale possibilità; inoltre, la scelta dell’ottimo Tiran per la parte sembra suffragare questa ipotesi), è ingegnere e proviene da Londra, dove pare abbia trascorso gran parte della propria esistenza, tanto da faticare a ricordare il proprio idioma nativo. Egli fa ritorno in Polonia per sposare la bella Zaneta (Agnieszka ?ulewska) e iniziare una nuova vita. Sarà lui il prescelto dal dybbuk. Al proprio matrimonio con Zaneta, in una deserta contrada nel sud del paese, isolata da un fiume non attraversabile se non tramite un natante (l’unico ponte è stato distrutto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale), egli arriva da solo, senza parenti o amici, e viene ricevuto con calore solo dalla futura sposa e dal fratello di lei, Jasny (Tomasz Schuchardt). Si prospetta una grande festa tradizionale, con una torma di invitati, musica folk e fiumi di vodka, ma anche con un ospite d’onore che molti guardano con diffidenza, fin dalla prima occhiata.
Prima e dopo la celebrazione del rito, Piotr viene trattato con cortese deferenza e convenzionale giovialità da quel vero e proprio clan costituito dagli amici di famiglia e dai parenti di Zaneta, oltre che dai tre notabili della località, il prete officiante (Cezary Kosi?ski), il medico del villaggio (Adam Woronowicz) – ateo beffardo e disincantato, che funge da controcanto comico-grottesco ai tragici eventi narrati – e il vecchio, malinconico Professore (Wlodzimierz Press). Ben presto, però, con l’insorgere in Piotr di un comportamento sempre meno istituzionale e formale, egli verrà dapprima ripreso bonariamente dal pater familias (Andrzej Grabowski), cioè il capoclan e padre di Zaneta, per poi finire letteralmente occultato alla vista dei convitati, inizialmente venendo rinchiuso in cantina, poi sparendo misteriosamente. Piotr è portatore di novità e istigatore di salace curiosità, con i suoi comportamenti eccentrici, almeno agli occhi di una comunità periferica e chiusa, quantunque agiata, come quella in cui sta tentando di inserirsi: parla l’inglese, fatica a esprimersi in polacco, sembra reggere male l’alcol, si muove sgraziatamente come un corpo perennemente estraneo al contesto, non partecipa alle danze e ai canti folk se non svogliatamente, anche se può ben darsi che tutti i lapsus, i tic e la complessiva goffaggine di cui è vittima siano i segni dell’inizio della possessione. Comunque, non è tanto la novità portata dai comportamenti insoliti di Piotr a costituire il vero motivo della sua emarginazione progressiva, quanto il suo interesse per l’antico, per il passato: la sera antecedente alla celebrazione, nel giardino prospiciente all’abitazione in cui è previsto il suo insediamento con la novella sposa, egli rinviene una fossa, al cui interno vede, o crede di scorgere, delle ossa umane. Solo dopo la macabra scoperta cominciano le sue visioni di Hana (Maria D?bska) – che si scoprirà essere probabilmente (niente è dato per scontato o sicuro nel film) lo spirito di una ragazza ebrea, morta ai tempi dell’occupazione nazista: l’epifania malinconica del dybbuk – e il progressivo deragliamento delle sue condizioni psichiche. Non è dato sapere se i resti da lui rinvenuti appartengano effettivamente a un essere umano, né perché si trovino all’interno della proprietà della famiglia di Zaneta, e neppure se si tratti o meno di un abbaglio del protagonista. Quel che è certo è che lo stato allucinatorio di quest’ultimo mette in discussione il presente (il matrimonio, la festa), per riattualizzare il passato. Infatti, non si può tornare alla propria terra né trovarvi dimora e ristoro senza conoscerne gli eventi fondativi e marcanti: ecco perché Piotr deve riappropriarsi del proprio passato storico, che non coincide strettamente col suo vissuto personale, ma che anzi abbraccia il Tempo e la Storia. E per ricollocarsi in tale dimensione, Piotr è necessitato a capire chi sia Hana, da dove venga e perché sia diventata la sua ossessione, anche se nessuno presta ascolto alle sue esortazioni, dato che solo lui può vederla e sentirla dentro di sé. Piotr allora non può che configurarsi, agli occhi del suo anfitrione e della sua corte, come elemento perturbante/inquietante, in quanto portatore di una verità, o meglio, di un racconto tragico e traumatico, che non è più parte della coscienza collettiva, essendo stato progressivamente rimosso, ma i cui segni, tuttavia, continuano a manifestarsi nei luoghi stessi che fanno da sfondo agli eventi. Egli costituirà, dunque, il corpo estraneo che modificherà alla radice l’armonia complessiva dell’ambiente, conducendo a una sorta di follia complessiva e onnipervasiva, che porterà pressoché tutti gli invitati a sembrare posseduti.
Solo colui che viene da lontano, pur trovandosi a ritornare, e che non risulta contaminato dalle scorie dell’omertà o dell’oblio interessato (o magari semplicemente ottuso) potrà cercare la verità sulla donna venuta da un altro tempo, un tempo lontano eppure prossimo, nonché strettamente collegato con il presente. Ecco allora che, per Piotr, vedere il fantasma di Hana non significa tanto scrutare una presenza allucinatoria e sfuggente, quanto piuttosto installarsi nella memoria e nel tempo, per delinearne quei tratti che l’inconscio collettivo ha cancellato, più o meno colpevolmente, col fine di mantenere integra la comunità. Una società riesce a mantenersi unita, infatti, solo quando è in grado di aderire a un racconto comune: più lineare, cristallino e mitizzante sarà tale racconto, più facilmente l’armonia complessiva sarà garantita. Hana non è altro che l’ombra di una fragile creatura, che cerca di riannodare i fili della sua vita distrutta dalla barbarie, sentendo di riconoscere in Piotr il suo uomo di un tempo; tuttavia, ella è anche la cattiva coscienza di quella comunità, un tempo abitata e vivificata da ebrei, poi scomparsi nell’immensa voragine della Shoah.
Non a caso, è proprio il personaggio del Professore – l’unico che alla festa esprime dichiaratamente la propria appartenenza al popolo ebraico, nonché probabilmente l’unico sopravvissuto della sua gente in quel luogo – a capire che l’inquietante comportamento di Piotr non è dettato dall’alcol né da una patologia, bensì da una possessione demonica; e nelle parole in yiddish pronunciate da Piotr, ma ispirate dal dybbuk, egli è l’unico a individuare la presenza di Hana, la ragazza risucchiata dalla Storia, dimenticata da tutti ma non da lui, e forse “riconosciuta” anche da Piotr. Nell’ultimo vano tentativo di rintracciare Piotr, è il Professore a guidare Zaneta, e con lei lo spettatore, in un vero e proprio viaggio nel tempo, scandito da una breve escursione fra le vie della cittadina e soprattutto dalle parole dell’uomo: “La macelleria una volta era una sinagoga. Ogni giorno, all’alba, lo Zaddiq [rabbino] camminava fin qui, si immergeva nel Mikveh [bagno rituale di purificazione], prima di accedere alla sinagoga, così da poter toccare la Torah e leggere le parole sacre. Tutti venivano a farsi benedire da lui: ebrei, ortodossi, cattolici […]. In questa strada, Eliza, Sarka e Mela, le sorelle di Hana, camminavano per andare a scuola. Le ragazze più belle che io abbia mai visto. Questo era tutto il mio mondo. Ormai non c’è rimasto quasi più nulla. Solo quello che conservo nella memoria”.
Non basta un matrimonio per riunire due mondi incomunicanti, della pioggia per lavare via le ombre del passato, della terra per coprirne gli orrori, e non serve attraversare un fiume per purificare la coscienza o rinnovarne i propositi. A volte, però, basta una vecchia fotografia dimenticata fra le macerie, perché i frammenti dispersi della verità ritrovino la loro collocazione.