My Flesh My Blood

Ancora una volta dall’Europa dell’Est arrivano opere che hanno il merito di aggiornare positivamente la storia del cinema mondiale. Film emotivamente forti, realizzati con grande senso di professionalità e con un livello artistico che sfiora, fino ad invaderlo completamente, un senso poetico senza eguali, unico nel suo genere perché brutale e commovente al tempo stesso, proprio com’è il carattere del mondo dell’Est dal quale giungono questi film. Un carattere che, probabilmente, è anche quello dell’autore di turno, il più delle volte sconosciuto e di solito impegnato nel suo primo lungometraggio. Stavolta è la Polonia ad essere protagonista: patria di maestri della cinematografia, da Krzysztof Kie?lowski a Zbigniew Rybczy?ski, da Walerian Borowczyk a Jerzy Skolimowski, passando per Andrzej Wajda, la Polonia è sempre stata protagonista della cinematografia internazionale. A loro si aggiunge (o, almeno, probabilmente si aggiungerà in futuro, continuando la strada intrapresa con il suo primo film) Marcin Wrona, giovane autore che, dopo una parentesi televisiva – The Parasite (2004), The Flaw (2004), The Collection (2006) e Doctor Halina (2008) – esordisce dietro la macchina da presa nel 2009, firmando il suo primo lungometraggio intitolato My Flesh My Blood.

Igor, il protagonista, è un pugile oramai alla fine della sua carriera: non a causa dell’età che avanza, ma per colpa di gravissimi danni al cervello che, se continuasse nel suo lavoro da boxeur, potrebbero addirittura portarlo verso una morte. La disperazione dell’uomo è visibile ad occhio nudo: Igor è una persona rude e violenta, non ha nessuno con cui condividere la propria esistenza e il pugilato è l’unica vera ragione della sua vita. Ora non può essere più la violenza a mettersi tra lui e chiunque altro, almeno non la violenza “lavorativa”: adesso il mondo sembra enorme, e il ring solo un piccolo quadrato di passaggio, dov’egli cercava e trovava rifugio, non nascondendosi, ma sentendosi padrone di quel piccolo universo. Ora la vita va affrontata a parole, con la triste consapevolezza di essere solo e di non aver conquistato nulla con la forza, né una donna da amare, né un figlio a cui insegnare o che almeno dimostri il suo passaggio su questo mondo, una sorta di attestato. È per questo motivo che Igor decide di volere un bambino, ma, come detto, le donne non lo avvicinano, hanno paura di lui, così come ha timore Yen Ha, giovane e bella immigrata vietnamita che lavora (viene praticamente sfruttata) in un piccolo ristorante etnico di Varsavia, ed ha bisogno del permesso di soggiorno per poter restare in Polonia. L’incontro tra i due segna un patto di non belligeranza e, al contempo, di non amore, che potrebbe permettere a entrambi di raggiungere il proprio scopo, senza però dover barcamenarsi troppo tra sentimenti inesistenti e mai nati. Eppure qualcosa sembra nascere tra i due, qualcosa che assomiglia a dei sentimenti veri, o almeno quanto possano essere veri tra due persone che non parlano la stessa lingua ed hanno un carattere completamente opposto. Un rapporto incomprensibile, ma che potrebbe dare la felicità ad entrambi. Purtroppo però la vita vera non sempre riserva dei finali da cinema melenso, stile romanzi Harmony. Specialmente un film così, uguale allo pseudo rapporto amoroso che ci presenta: all’inizio rude e violento così com’è la vita di Igor, ma che man mano sembra addolcirsi, privilegiare una calma e una serenità come quelle che avvolgono la vita della bella Yen Ha.

Presentato nel 2009 al Festival Internazionale del Fil di Roma nella sezione “L’Altro Cinema/Extra”, My Flesh My Blood si presenta come una piccola perla sia a livello stilistico che di storia narrata: un vicenda troppo reale per perdersi nei fittizi meandri del romanzesco o del colpo cinematografico ad effetto. Marcin Wrona impregna il suo film di emozioni forti, di una violenza totalmente espressa e immortalata nel faccione grottesco di Igor, nel suo porsi nei confronti degli altri (come la sua ex moglie o il suo miglior amico, che seppur vicini a lui sembrano subire la sua violenza improvvisa e quasi meccanica, non voluta). D’altro canto Wrona riesce a trasmettere una delicatezza unica, così com’è quella della protagonista, che alla fine sembra non voler accettare il patto semplicemente per tristi interessi personali, ma quasi sembra nascere in lei un sincero amore nei confronti dell’uomo. Una dolcezza, quella cinematografica del regista, che si presenta perfettamente in una sequenza degna di nota: il loro rapporto sessuale sul letto rosso, un vero “combattimento” tra violenza e tenerezza, le quali non sembrano annullarsi, ma convergere per entrare in stretto rapporto, così come i due protagonisti.

Wrona non lascia niente al caso, e anche se tra i due la comunicazione è quasi del tutto azzerata, la macchina da presa permette di stazionare totalmente a ridosso dei protagonisti, così da poter penetrare nella loro psicologia e comprenderli; capire delle persone che, dall’esterno sembrano dei semplici outsider, dei pazzi o semplicemente strani per come si comportano, ma che in realtà esprimono sentimenti forti e lo fanno nell’unico modo che è loro possibile, o tramite la violenza o tramite la timidezza e la dolcezza. Al suo primo film Wrona dimostra di essere una sorta di talento nato ma, nonostante la presentazione e il buon successo riscosso a Roma due anni fa, il film non è stato proiettato nei nostri cinema. Davvero un peccato (ne commettiamo tanti), anche perché il film è stilisticamente riuscito e avrebbe meritato maggior considerazione. Per fortuna non ci sono tantissime difficoltà nel recuperarlo. Ma anche se ce ne fossero state avremmo consigliato di affrontarle per vedere questa bellissima opera, perché ne vale davvero la pena.

Autore: Donato Guida
Pubblicato il 01/03/2015

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