The Devil and Father Amorth
A più di quarant’anni da L’esorcista, Friedkin esplora nuovamente i territori del diavolo con un documentario sull’ultimo esorcismo di Padre Amorth.
Dopo il noir del 2011 Killer Joe, William Friedkin torna a Venezia, stavolta fuori concorso, con il documentario The Devil and Father Amorth. Quello di uno dei più grandi registi americani viventi è, però, un multiplo ritorno: oltre al festival, infatti, Friedkin torna al genere documentario, con cui aveva iniziato la sua carriera nei primi anni sessanta, e torna, poi, a esplorare uno dei temi a lui più cari: il diavolo. Lo fa, stavolta, prendendo come spunto l’occasione di poter filmare a Roma l’ultimo esorcismo del più famoso e attivo esorcista del mondo, Padre Gabriele Amorth, scomparso durante le riprese del film.
Il regista americano ci accompagna nel suo viaggio sui territori più inesplorati del demonio partendo proprio dal suo cinema: ci mostra, inizialmente, i luoghi delle riprese de L’esorcista, uscito più di quarant’anni prima, discutendo con diversi interlocutori (tra cui varie interviste a William Peter Blatty, autore del libro da cui il film è tratto) circa lo sviluppo dei suoi interessi per il tema; lentamente, poi, ci conduce a Roma, dove Amorth vive e opera da diversi anni. Man mano che passano i minuti, sale spasmodica l’attesa per l’evento annunciato: il nono tentativo del prete di espellere uno spirito maligno dal corpo di una donna sarà ripreso integralmente (ma senza luci né troupe) dal regista.
Le prime immagini sono decisamente stranianti: una stanza completamente disadorna, al cui interno spicca un divano rosso su cui è seduta la donna, attorno alla quale i familiari pregano in gruppo seguendo le indicazioni di Amorth. Appena inizia l’esorcismo, tra spasmi e urla incontrollate della donna, tenuta per le braccia e le gambe dai familiari, lo straniamento si trasforma subito in follia. Friedkin, costretto a girare con una piccola videocamera a mano, finisce per condurre gli spettatori all’interno di quella stanza, partecipi anche loro al piccolo ma intenso rituale “governato” dal prete. A tale approccio estetico da cinema-verità (camera a mano, sonoro in presa diretta) aggiunge qua e là qualche tocco da maestro, che genera una serie di cortocircuiti dell’immaginario: tra tutti, gli effetti che aggiunge in post-produzione alla voce urlante della donna, per renderla il più vicina possibile a quella della “sua” piccola Regan.
Dopo averci fatto assistere a più di mezz’ora di (vero?) esorcismo, Friedkin decide di non farci varcare la soglia della chiesa di Alatri, luogo in cui si sarebbe dovuto tenere un incontro tra lui e la donna esorcizzata da Amorth. Siamo costretti, sul più bello, a fare un passo indietro, a credere al racconto di ciò che è avvenuto dentro la chiesa unicamente attraverso le parole del regista. Questa svolta all’interno del regime testimoniale delle immagini fin qui definito trasforma la sequenza, in un paradosso di trasparenze, nella più sconvolgente di tutto il film. Una precisa scelta etica, quella di Friedkin, che rimanda direttamente al consueto sguardo di Herzog sui fenomeni antropologico-culturali che varcano le soglie del rappresentabile. Anche se fino a questo momento abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere, il regista ci suggerisce come non ci sia bisogno di mostrare, di far vedere tutto, per raccontare o rendere al meglio l’autenticità dell’esperienza.
Per farlo, Friedkin ci invita a credere nel suo cinema, esattamente come più di quarant’anni fa ci aveva accompagnato nei territori del diavolo con un film manifestatamente di finzione come L’esorcista. Per questo non ci interessa poi tanto se ciò che abbiamo visto fino a quel momento sia “vero” o “falso”: ciò che conta è che la ritualità dell’evento, la reiterazione dei gesti, l’ambiente che ha fatto da contesto agli spasmi e alle urla della donna, di cui Friedkin ci ha reso testimoni, siano in tutto e per tutto autentici. Come ci spiegano psichiatri, neuro-scienziati o uomini di chiesa stessi, cui Friedkin fa vedere le immagini dell’esorcismo, è possibile ormai definire la possessione demoniaca come una patologia clinica, le cui cause, tuttavia, vanno rintracciate nel contesto in cui essa stessa si manifesta e si sviluppa. Si riprendono, potremmo dire, le suggestioni già avanzate dal documentario etnografico, dalle possessioni in Africa coloniale di Les maîtres fous di Jean Rouch alle ritualità primitive, seppur riprese con uno sguardo certamente più classista e coloniale, dei mondo-movies degli anni sessanta.
La possessione, tuttavia, non va trattata unicamente come un fenomeno antropologico. Friedkin stesso, nel finale, ci suggerisce provocatoriamente che, per credere all’esistenza di tale fenomeno, siamo costretti ad assumere uno sguardo, se non religioso, almeno spirituale: se ammettiamo, cioè, che i demoni esistono, se abbiamo dunque creduto a tutto quello che abbiamo visto o ci è stato raccontato fino a quel momento, se abbiamo avuto, anche solo per un istante, un po’ di fede nel suo cinema, dobbiamo riconsiderare, quantomeno, la possibilità che esistano anche gli angeli.