The Devil's Candy
Il secondo film di Sean Byrne è un horror dal retrogusto vintage, in cui il sovrannaturale e l’heavy metal tornano a dialogare intensamente per raccontare una storia di ordinaria follia.
Negli anni Ottanta l’America fu preda di un’isteria collettiva (la cosiddetta Satanic Panic) che durò per buona parte del decennio: fu così che l’heavy metal finì nel mirino di stampa, istituzioni, genitori, insegnanti e gerarchi ecclesiastiche, terrorizzati dalla convinzione che un’intera generazione di adolescenti stesse per consegnare la propria vita nelle mani di Satana. Un terremoto musicale e culturale di proporzioni bibliche, che sembrava in grado di scuotere le fondamenta del paese, presagendo il declino della civiltà occidentale. Più prosaicamente si trattò di un fenomeno di rottura, tra spleen adolescenziale e disagio sociale, che flirtava apertamente con il nuovo cinema horror americano, con cui condivideva la riflessione sulle radici del male e le sue fascinazioni (case infestate, massacri seriali, possessioni demoniache) tanto da diventare, nel corso del tempo, la colonna sonora portante di una serie di pellicole destinate a diventare veri e propri cult per gli appassionati (Nightmare 3 – I guerrieri del sogno, Morte a 33 giri, Phenomena, Demoni, il Corvo.) Oggi il metal ha consumato la carica sovversiva degli esordi, diventando, di generazione in generazione, un genere contaminato da diverse influenze, diffuso e celebrato in tutto il mondo. Tuttavia, come la sua controparte cinematografica, continua a conservare ancora una certa simpatia per il diavolo, come dimostra questo The Devil’s Candy del regista australiano Sean Byrne.
Un film dal retrogusto vintage, in cui l’horror sovrannaturale e l’heavy metal tornano a dialogare intensamente per raccontare una storia di ordinaria follia, quella della famiglia Hellman (un artista tormentato, un’hippy coscienziosa, una figlia ribelle), costretta per ragioni economiche a trasferirsi in una nuova casa dal fosco passato nel cuore del Texas rurale, tradizionale domicilio del maligno. Una terra di nessuno dove, tra squallidi motel di periferia, sceriffi di provincia e predicatori catodici, forze oscure agiscono indisturbate per mano di un serial killer emarginato dalla vita (Pruitt Taylor Vince), sussurrando ai nuovi arrivati il loro mantra di sangue.
Dopo aver scandagliato gli orrori e le ossessioni dell’età di transizione nel suo acclamato debutto The Loved Ones, un originale torture porn travestito da teen-movie anni Ottanta, Sean Byrne torna dietro la macchina da presa per descrivere le paure inconsce e le insicurezze del ruolo genitoriale, scardinando i cliché della famiglia tradizionale in una personale reinterpretazione del mito faustiano in chiave heavy metal. Il trillo del diavolo ha la voce dei Sunn O)), sacerdoti neri del drone metal ed eredi colti di quell’attrazione atavica del rock nei confronti dell’occultismo. Seppure in buona compagnia (Metallica, Slayer, Machine Head, Cavalera Conspiracy), i Sunn O)) restano i più adatti ad incarnare quell’accordo maledetto (Diabolus In Musica - Tritono), in grado di corrompere chiunque lo ascolti.
La maschera del demonio viene indossata da un sofferto Pruitt Taylor Vince, inquietante psicopatico e pedina suo malgrado di un gioco al massacro più grande di lui. Una figura difficile da dimenticare, capace di evocare contemporaneamente puro orrore e profonda pietà. Mentre nelle vesti del tormentato protagonista troviamo uno statuario Jesse Hellman (Ethan Embry), credibile sia nei panni del pittore in cerca dell’ispirazione perduta che in quelli dell’amorevole padre di famiglia, tutto tatuaggi e headbanging. Un personaggio impegnato a combattere una lotta intestina tra due vocazioni: quella cristallina di difensore del focolare domestico, pronto a sacrificarsi per salvare l’amata figlia (Kiara Glasco), e quella ambigua dell’artista insicuro, sedotto dalla tentazione febbrile di barattare la sua anima e sacrificare i suoi cari in cambio del successo. In appena ottanta minuti, The Devil’s Candy riesce a tenere incollato lo spettatore in un viaggio di redenzione dalle tenebre verso la luce, pur attingendo agli archetipi più abusati del genere horror; come un riff di chitarra basato sugli stessi accordi che, se suonato bene, riesce a colpire superando la prova del tempo.