At The Devil's Door
Uno dei grandi horror del 2014, un'invasione demoniaca al femminile che diventa una vertiginosa rappresentazione del Male nel mondo
Ecco una delle sorprese più importanti del 2014, almeno in ambito strettamente horror. L’opera seconda di Nicholas McCarthy si ricollega direttamente al suo film d’esordio, quel The Pact che già lasciava intravedere in nuce i germogli di un talento registico notevole, da parte di un nome che ora più che mai è da tenere d’occhio per il futuro.
E proprio come nel film precedente, infatti, anche At the Devil’s Door (conosciuto anche con il titolo Home , decisamente più calzante e riuscito, e durante la visione ne è facilmente intuibile il motivo) si muove all’interno di un universo domestico e famigliare, per spostare il discorso all’interno di una dimensione che si fa progressivamente sempre più astratta, ma al tempo stesso tangibile nella sofferenza che si porta dietro. Ancora due sorelle e una maledizione che grava su di loro, e ancora un’abitazione – intesa proprio nel senso di casa, edificio – a fare da teatro alla vicenda. Vicenda che per buona parte del film rimane oscura e apparentemente incomprensibile, almeno agli occhi dello spettatore: per tutta la prima ora infatti non si capisce cosa stia accadendo, e perché; e quando il disegno generale comincia man mano a rivelarsi, il tutto prende una piega dolorosissima e inaudita, perché gli orrori che vi si nascondono dietro sono di quelli che fanno veramente paura, in quanto appartengono a chiunque. Ma andiamo con ordine.
La premessa di At the Devil’s Door non sembra delle più stimolanti, soprattutto in termini di originalità: si comincia con una possessione demoniaca ai danni di una giovane ragazza, convinta dal fidanzato a fare un bizzarro e apparentemente innocuo gioco con un vecchio messicano, in cambio di una somma di denaro; nella vincita però è compresa anche la presenza del Diavolo in persona, che si insinua dentro la sua vittima fino a spingerla alla morte. Da qui il film cambia rotta e percorso più volte, rigenerandosi in continuazione e abbracciando piani temporali diversi senza mai sentire il bisogno di spiegare fino in fondo i retroscena che si insinuano negli angoli bui di un plot complesso e sfaccettato.
In questo modo Nicholas McCarthy si dimostra pienamente consapevole di tutto il potenziale dialettico che il genere porta con sé, affrontando tematiche fin troppo abusate ma allo stesso tempo riuscendo a utilizzarle in funzione di una visione e di una riflessione assolutamente personale. Se in The Pact la dimensione domestica veniva “violata” da una presenza maligna tipica del filone delle case infestate, in At the Devil’s Door la componente orrorifica rimanda all’altrettanto consolidata tradizione esorcistico/demoniaca, virata però attraverso una sensibilità che non sembra trovare dei termini di paragone immediati, almeno in tempi recenti. Ed è così che allora il film si tramuta, lentamente e in maniera sinuosa, in una vertiginosa rappresentazione del Male che si annida all’interno della società e del mondo, utilizzando come canale di trasmissione lo strumento più antico possibile: il denaro. Non è un caso quindi che a fare da sfondo a questa grande affresco di morte e disperazione sia l’America della crisi economica, con le sue difficoltà e le sue solitudini incolmabili: e proprio la solitudine è quella condizione esistenziale con la quale le sue protagoniste, sempre donne, sono costrette a convivere quotidianamente, per scelta o necessità.
I personaggi femminili di McCarthy sono figure che mal sopportano la propria statura di eroine, perché disperatamente prive di amore; sono vittime di un passato che ritorna sempre, lo stesso che trova tra le quattro mura di un’abitazione (di tutte le abitazioni) il palcoscenico ideale attraverso il quale perpetuare l’orrore, perché il Male arriva sempre al momento giusto, colmando quei vuoti che non aspettano altro di essere saziati, a qualsiasi costo. Svelandosi un poco alla volta e, soprattutto, mai in maniera compiuta e definitiva, il film si trasforma così in una visione carica di tensione e di angoscia proprio in virtù della sua struttura priva di una soluzione e di una comprensione immediata: senza spiegazioni facili, senza deus ex machina narrativi in grado di smorzarne il fascino e la bellezza, ma anzi proseguendo inesorabilmente verso un finale tutt’altro che rassicurante. Perché il Male ha già vinto la sua partita, ieri come oggi, e l’unico modo per sopravvivere è piegarsi – auto-annullarsi – al suo disegno superiore.