The Babadook
Un horror dalla dimensione domestica, incentrato sul tragico divenire dei sentimenti di una donna nei confronti del suo bambino.
Alla faccia di chi lo voleva morto e sepolto, il genere horror ha rialzato la testa. Non è la prima volta che ci ritroviamo a sostenerlo, in questo 2014 prodigo di conferme e di gradite sorprese; e se, purtroppo, in sala continuano ad essere distribuiti i titoli più immediati e meno interessanti, nel tentativo di accalappiare il giovane pubblico delle multisale con i consueti sequel, remake e mockumentary vari, altrove questo cinema continua a dimostrare di avere ancora molto da dire.
Fresco di presentazione all’ultimo Torino Film Festival (dove era nientemeno che in concorso), insieme allo straordinario It Follows, The Babadook di Jennifer Kent è appunto uno dei titoli di punta di questa annata; e siccome non c’è due senza tre, ci sentiamo di inserire nel podio anche un ulteriore film, At the Devil’s Door di Nicholas McCarthy (conosciuto anche come Home), passato sulla Croisette, a dimostrazione che l’horror che conta è sempre e ancora quello che rigira il coltello nella ferita, quello che mette alla luce i nervi scoperti, quello che indaga sulle problematiche della contemporaneità attraverso il suo punto di vista sporco e distorto.
Nato da un corto della stessa regista, qui all’esordio nel lungometraggio, The Babadook recupera la connotazione più fiabesca del genere, quella legata al mondo dell’infanzia e al suo primo, traumatico contatto con la dimensione della paura: è la storia di una madre vedova, non più giovanissima, che vive da sola con un figlio di sette anni che non ha mai conosciuto il padre. Un rapporto sempre in equilibrio sul filo del rasoio, destinato ad affrontare una svolta inattesa nel momento in cui il bambino sostiene di sentirsi minacciato da una presenza inquietante e misteriosa, il babadook, una creatura ancestrale protagonista di un libro illustrato. Nonostante le premesse, il film rifiuta a priori un immaginario horror fatto di apparizioni alle spalle e tonfi improvvisi in colonna sonora; chi è in cerca di spaventi facili e di soluzioni visive già consolidate, quindi, è bene che si rivolga altrove, nonostante pure qui non manchino porte scricchiolanti e corridoi poco rassicuranti: ma non è questo il punto. Al contrario, la Kent è bravissima nel costruire un’atmosfera di disagio all’interno di una dimensione domestica, esattamente come fa McCarthy nel già citato At the Devil’s Door: più che una ghost story, The Babadook è un dramma famigliare chiuso prevalentemente entro quattro mura, nel quale l’orrore principale è dato dal tragico divenire dei sentimenti di una donna frustrata nei confronti del suo bambino.
Attraverso quella spiccata sensibilità femminile che oggi forse manca al genere, la regista cerca sempre le soluzioni meno accomodanti, mettendo la sua protagonista al centro di un vortice emotivo che si trasforma ben presto in un vero e proprio tour de force, tanto per il personaggio quanto per lo spettatore. Se è vero che il suo discorso non esce mai dai confini di una riflessione in fin dei conti tutt’altro che originale (e questo è forse l’unico limite imputabile al film), allo stesso tempo riesce a oltrepassare questi ostacoli lavorando sulle zone d’ombra della vicenda, accumulando domande che non sempre trovano una risposta. Questa volontà di lasciare all’oscuro lo spettatore, questo rifiuto nei confronti di quel cinema che sembra sempre voler spiegare qualsiasi cosa ad ogni costo, si trasforma così in una presa di posizione forte e decisa nei confronti del genere, filosofia che non a caso è possibile riscontrare anche negli altri due film citati in apertura. Ecco quindi perché The Babadook è un grande film sugli orrori del quotidiano e dei sentimenti, sulla mancanza – fisica e spirituale – e sul lutto, e sull’impossibilità di venire a patti con i fantasmi della propria vita: perché mette alla luce quel lato oscuro solitamente rimosso, inserendosi nella tradizione del cinema horror che conta, quello che non risana i contrasti, bensì li mette in scena per ciò che sono. Per come noi li abbiamo creati.