Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers
Il quinto capitolo della saga di Michael Myers è un fallimento romantico, un elogio del passato che soffoca ormai ogni immaginazione.
Giunta al suo quinto capitolo e ormai abituata a ragionare su se stessa, sulle regole della rappresentazione dell’orrore, sui meccanismi di genere che in parte ha collaborato a sviluppare e in parte ha agglomerato nel corso degli anni, la saga di Halloween tratta gli elementi della sua narrazione come connotati normalizzati e convenzionali che non stupiscono più, e sono dati per scontati sia dagli appassionati che dai fruitori casuali. È la caratteristica controversa di un franchise fondato inizialmente sulla ferocità delle sensazioni paurose e ora costretto a confrontarsi invece con la progressiva decostruzione di questi sentimenti essenziali e con la parallela costruzione di un nuovo linguaggio comunicativo, fatto di espressioni audiovisive autoriflessive e di momenti narrativi celebrativi. Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers è infatti una lunga parentesi ripiegata su sé stessa, desiderosa di sottolineare le particolarità dell’idea di terrore carpentariano attraverso la cristallizzazione definitiva dei suoi connotati fondamentali, e quindi attraverso la canonizzazione di certi processi formali.
Non è un caso che il film, a differenza dei due sequel che lo precedono, sia partecipe di un linguaggio horror più didascalico (perché fortemente dichiarato) e non è un caso che la trama (direttamente collegata al quarto capitolo) giri intorno alla vendetta di un Michael Myers che ricalca azioni già commesse e già pagate: l’interezza del capitolo diretto da Dominique Othenin-Girard è concentrata nel mettere in scena un gioco di sangue a cui tutti – che si tratti di realtà diegetica o extra diegetica – sono abituati e di cui tutti conoscono le regole; i meccanismi di sorpresa sono completamente assenti, sostituti dalla consapevolezza di non poter fare altro che affidarsi agli “autonomi” processi della narrazione; la linguistica del terrore, del jumpscare, del fuori campo è trasfigurata in inquadrature che inscatolano la minaccia annunciandola più che nascondendola, elogiandola con riverenza più che temendola. Con una prevedibilità esponenziale e la tensione ai minimi termini, il coraggio del film nel ripetere passo per passo quanto fatto in precedenza è quasi toccante, una dimostrazione di affetto rigorosa verso un simbolo ormai svuotato della sua potenza scioccante.
Non c’è molto altro. Anche l’apporto di un concetto di eredità interno alla saga, elemento più che interessante nelle sue premesse perché legato a riflessioni antropologiche sulla natura del male, è abbandonato in virtù di una partecipazione emotiva forte e solida, legata alla visione della purezza infantile. Halloween 5 è quindi un fallimento romantico, un capitolo che a tratti sembra addirittura interlocuzione per un futuro incerto, che trova ragione d’essere nella passione verso personaggi osservati come reliquie e che dimostra un pizzico di intelligenza strategica solo nella disposizione degli elementi della storia nello spazio in cui si svolge. Come se l’unica possibilità di raccontare ancora questa storia sia quella di muoversi tra eventi imbalsamati dentro a teche di vetro, spettatori di un museo dell’orrore che era un tempo spettacolo dal vivo e ora è solo un ricordo perso tra i riflessi.