Il vizio della speranza

di Edoado De Angelis

Al quarto film il cinema di Edoardo De Angelis trova una sua precisa identità estetica, segno distintivo di un Southern Gothic italiano.

Il vizio della speranza  - recensione film De Angelis

Trovare un codice visivo nuovo, inconfondibile, al cento per cento personale, è un definitivo segno di maturazione per un regista. Edoardo De Angelis, al quarto film, è ormai padrone assoluto della propria estetica. È stato un percorso graduale, per tasselli: Mozzarella Stories, l'inevitabile commedia da esordio; Perez., camorra-movie di evidente matrice gomorriana; Indivisibili, bizzarro e incatalogabile, premiatissimo dall'establishment italiano. Un passo dopo l'altro, in direzione di questo Il vizio della speranza: vincitore alla Festa del Cinema di Roma, è un film controverso, imperfetto, con alcuni prevedibili difetti (che a questo punto il regista napoletano sembra desinato a portarsi dietro a vita). Ma soprattutto è un film di Edoardo  De Angelis, senza dubbio alcuno. Da questo momento, confondere l'autore con un qualunque imitatore del Garrone più lo-fi (autentica scuola manierista italiana a cui troppo frettolosamente era stato associato), non è più possibile.

L'impianto de Il vizio della speranza è quello del noir classico (d'altronde c'è Giorgio Scerbanenco citato già nel titolo): l'individuo in rivolta personale contro un sistema opprimente, che si auto-condanna alla fuga e alla lotta per la sopravvivenza. Maria (Pina Turco, compagna del regista, strepitosa) si occupa di gestire una rete di prostitute africane per conto della madame Marina Confalone. Nel tempestoso delta del Volturno, il suo compito è condurre a partorire le ragazze rimaste incinte: il neonato sarà portato via dall'organizzazione e venduto a chi pagherà. Alla notizia di aspettare un bambino lei stessa, Maria aiuterà una delle ragazze a fuggire e si darà alla macchia. Con un cappuccetto blu sulla testa e un pitbull che la segue ovunque, fuggirà tra la melma e la pioggia di una Campania sfigurata da un Natale mai così squallido. Braccata dagli sgherri della sua "padrona", in fuga tra sfollati e baracche di immigrati, determinata a dare alla luce un bambino che, a quando dicono i medici, potrebbe costarle la vita.

Il vizio della speranza pianta lo sguardo addosso ad un mondo che, da un punto di vista cinematografico, siamo ormai abituati a conoscere. Ha dell'incredibile allora la capacità di De Angelis di trasfigurare il (solito) universo provinciale-periferico meridionale, sprofondato nella povertà e nella criminalità, in qualcosa di mai visto.
Nel neo-neorealismo italiano di camera a mano e colori in grigio, da un decennio abbondante la poetica dello squallore periferico è terreno di facili spunti per una schiera infinita di registi. De Angelis porta il discorso estetico a un livello inedito per potenza immaginifica. Il lurido delta di questo Volturno-Mississippi non somiglia a niente di quanto visto in altri mille lavori con storia e ambientazione simili. E' un film grande, quasi epico. I piani sono larghi, i campi lunghi o totali: le sponde del fiume sembrano distanti chilometri, immerse tra canneti, paludi, popolate da mostri e serpenti. La gente vive in prefabbricati e baracche fragili, quasi sul punto di essere portate via dalla  corrente e dalle inondazioni. Il direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio allarga insistentemente il campo (l'opposto esatto della cifra garroniana), inquadra i luoghi alla fine del mondo come in uno scenario da Sud USA. Arriva quasi a ricordare certe tendenze estetiche contemporanee alla True Detective (o alla Re della terra selvaggia, seminale e semi-dimenticato film del 2012). E al centro di tutto, il gusto dell'orrore: orrore non inteso come paura, ma come repulsione ossessiva e affascinata. L'estetica dell'orrido di De Angelis raggiunge qui l'apice, un mondo in cui tutto è deforme, malato, in qualche modo sfigurato. Da vezzo auto-compiaciuto ad autentica cifra: un universo chiuso di fango e rifiuti, acqua e sopraffazione. Stupro e tensione razziale. Il Southern Gothic italiano.

Dall'altra parte dello spettro, si ripresentano invasivi i classici difetti di De Angelis. L'attitudine fiabesca già mostrata in Indivisibili torna alla ribalta anche qui, annacquando l'esistenzialismo del noir con l'idealismo di chi il vizio del titolo non riesce a perderlo. Nel mondo oscuro che De Angelis ritrae con cura quasi ossessiva, i buoni sentimenti non annegano ma prosperano. Emerge allora nel terzo atto una certa attitudine parrocchiale alla  retorica spinta, metafore religiose reiterate, l'ideale di una "grazia" femminile salvifica non sempre raffinata come l'autore vorrebbe. Il titolo ne dà indizio chiaro: nella melma eterna che sembra aver ricoperto il mondo intero, a De Angelis piace cercare la luce, il buono. Ma i buoni non sono interessanti come i cattivi, e le redenzioni non sono mai credibili come le dannazioni. Appoggiandosi a un facile con lieto fine tra i "buoni reietti" del mondo, Il vizio della speranza stempera quella potenza brutale che lo sospingeva. L'estetica c'è, la poetica può essere affinata. Già così, il quarto film di Edoardo De Angelis è uno dei titoli italiani della stagione.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 30/11/2018
Italia 2018
Durata: 90 minuti

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