Mai raramente, a volte sempre
Dopo l'anteprima al Sundance, dove vince il Premio per la Regia, Eliza Hittman racconta in concorso alla Berlinale un aborto senza retorica né politica, ma attraverso la forza della storia.
Come si racconta un aborto oggi, lontano dal banale e dal retorico, semplicemente mettendo in scena lo stato delle cose? Risponde la regista Eliza Hittman, tradizionalmente amata dal Sundance, che arriva in concorso alla Berlinale 2020 con Mai raramente, a volte sempre (Never Rarely Sometimes Always), prodotto tra gli altri da Barry Jenkins. La storia è quella della diciassettenne Autumn (Sidney Flanigan), una giovane come tante che all’inizio del racconto si ritrova già incinta, senza che ci sia dato conoscere la dinamica. L’unica depositaria della sua sincerità è la cugina Skylar (Talia Ryder), adolescente esattamente come lei che decide di sostenerla e aiutarla. L’interruzione di gravidanza a diciassette anni è però illegale in Pennsylvania senza il consenso dei genitori: così Autumn e Skylar intraprendono un viaggio su treni e pullman, nella forma del classico road movie americano, pericolante e di fortuna, per ottenere il proprio obiettivo.
Eliza Hittman ribadisce la sostanza del suo cinema, dopo il precedente Beach Rats che raccontava di un ragazzo di oggi, con la famiglia che vuole trovargli una fidanzata mentre lui preferisce incontri gay con uomini maturi. Il cuore della regista è dunque nell’indagine sulla sostanza nascosta dietro l’apparenza. Anche Autumn, con quel suo nome autunnale, deve “fare finta” perché sa che la sua condizione non verrebbe appoggiata dai genitori: può contare solo sulla cugina in veste di aiutante, fino alla tenera scena in cui lei bacia un ragazzo – per ottenere un biglietto di ritorno – ma in realtà con una mano libera stringe le dita dell’amica.
Il racconto si forma gradualmente con sensibilità e spessore, puntando sulle giovani attrici ottimamente dirette (la loro prova è praticamente pari merito) e tirando fuori l'ipotesi migliore dal suo impianto indie: posta la premessa, con la protagonista che tenta un maldestro aborto homemade, subito si entra immersivamente nell’intreccio, si segue la parabola di Autumn che è semplicemente una piccola storia possibile, quindi diviene anche nostra. Non si costringa però Eliza Hittman nel recinto della “regista femminista”: il punto è nel racconto avvolgente, che non contiene una presa di posizione esplicita. Il vero dato politico sta da un'altra parte: le peripezie delle ragazze per interrompere la gravidanza diventano gradualmente una metafora della difficoltà di abortire ancora oggi, e dunque del problema di autodeterminarsi e decidere sul proprio corpo. Si può fare, sembra dire il film, ma al costo di un tormentato road movie. Al risultato concorre il volto di Sidney Flanigan, sfuggente e non interpretabile, che riesce a celare il proprio sentire interiore fino alla costruzione della scena madre.
La sequenza arriva sottovoce, di nuovo senza urla né eccessi: una dottoressa interroga Autumn per un test che si rende necessario prima di ogni aborto, con risposte a crocette, e la giovane deve scegliere tra le varie opzioni: “Mai Raramente Qualche volta Sempre”. Ecco il senso del titolo. Qui Hittman punta la cinepresa sul viso di Flanigan, in un lungo piano sequenza che non concede controcampo. La realtà della sua situazione esplode sommessamente, ma in modo quasi insostenibile. Le quattro opzioni sono il simbolo di una scelta imposta, mai pienamente libera, che bisogna combattere come fa la regista: attraverso la forza di una storia.