Volevo nascondermi
Sul corpo di Elio Germano, premiato alla Berlinale come miglior attore, si costruisce la sofferta figura del pittore Ligabue, in un film epidermico che lavora sul contatto tra le superfici.
Tutto passa sul corpo di Elio Germano, tutto passa sul corpo di Toni Ligabue: i germi, la neve, le percosse, le carezze, le mani di una donna mentre prova a placare la rabbia che cova dentro il pittore.
Nella sua prima metà, Volevo nascondermi sembra filtrato dallo spioncino che lo stesso Ligabue si costruisce sotto la coperta con cui prova a celarsi al mondo, la fessura attraverso la quale guardare questo stesso mondo abbattersi sulla propria pelle senza leggerezza, proprio come le sculture zoomorfe che il pittore lancia fuori dalla finestra in uno dei tanti, repentini scatti d’ira che lo caratterizzavano. Ecco, fin qui quello di Giorgio Diritti è un film epidermico, è un film animale, un film di pelle e di bestie, di superfici e punti di contatto, è un film né sul dentro e né sul fuori, ma sul loro rapporto, su quella sottile linea che queste due dimensioni media. Da qui, l’indugiare della macchina da presa sulle asperità del volto di Elio Germano (vincitore dell’Orso d’argento come miglior attore al Festival internazionale del cinema di Berlino), sulle sue mani tremanti, sulla sua cifosi, sul suo dondolare ossessivo.
Poi una seconda parte dimessa, edulcorata, in cui il regista, nel fornire lo spaccato di un mondo di provincia, quello di un paesino sulle rive del Po (quasi) privo di ogni conflitto, pare volersi assestare su quanto costruito nella prima parte, senza (e questo è un fattore positivo) indulgere al facile patetismo né a una grezza scopofilia, al contempo, però, abbandonando quegli elementi che facevano del film qualcosa di più della semplice ricostruzione di una vita: il lavoro sul corpo rachitico di Ligabue lascia spazio alla rappresentazione della rete sociale, un microcosmo idilliaco e apparentemente utopico che, pur guardando al corpo di Ligabue come all’Altro, al Diverso, sembra, in fondo, sempre accettarlo, redimendo non tanto i protagonisti stessi, quanto gli spettatori commossi, che, inevitabilmente, finiscono per guardare con empatia distaccata, benevolenza e compassione al pittore e a chi se ne prende cura, e con rancore a chi, volontariamente o meno, lo umilia.
L’intento di Diritti è chiaro, lo dice lui stesso: «come per ogni uomo nella vita, è capitato anche a Toni di sentirsi inadeguato, sbagliato, sconfitto e il primo istinto anche per lui in quei momenti è stato il desiderio di nascondersi, di uscire dal mondo. Rileggendo il percorso della sua vita, appare evidente quanto il suo essere visto come "diverso" sia l'origine di molte delle sue sofferenze ma anche il nucleo generativo della sua identità artistica e del suo successo» (fonte: Film Tv). È proprio nella prima ora di film che quest’intento si compie, e vi risiede il grande merito di Volevo nascondermi, quello di mettere al centro dell’opera una dimensione che il cinema italiano ha spesso allontanato se non addirittura rifiutato: la dimensione del corpo, il corpo che si contorce, che si piega, il corpo che soffre. Il regista de L’uomo che verrà non è interessato alla linearità narrativa, né alla pedissequa ricostruzione di una vita, né, tantomeno all’uso della macchina-cinema per tentare di riprodurre una visione, una precisa estetica (operazione delicata e dai risultati spesso artificiosi, come dimostra il recente Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel); piuttosto sembra voler insinuare la macchina da presa all’interno delle pieghe di quel «siamo tutti animali», battuta cardine di Ligabue, pronunciata in sordina, ma che sembra avere il sapore di una nenia che torna e ritorna nella mente del pittore e che si erge a sunto di un’intera poetica, fatta di tigri feroci e uccelli rapaci, di corpi deformi e di volti inumani e che, in particolar modo, permette al regista di lavorare sul concetto di Diversità, attraverso l’analogia e la simmetria tra il corpo umano e quello animale.